Importanti scoperte sulla decomposizione dei cadaveri umani
Barbara Ruscitti 23/01/2024 0
Il sito AFTER (Australian Facility for Taphonomic Experimental Research) di Yarramundi sta conducendo significative ricerche sulla decomposizione dei cadaveri umani, offrendo contributi fondamentali nel campo sin dalla sua operatività nel 2016.
L'unicità di questa struttura nell'emisfero australe, lanciata dall'Università della Tecnologia (UTS), è evidente nel suo ruolo di osservare e studiare la decomposizione dei cadaveri umani. La dottoressa Maiken Ueland, ricercatrice associata e vicedirettrice del progetto, ha dichiarato che attualmente il sito ospita 74 corpi umani in vari stadi di decomposizione, con il team impegnato a massimizzare il valore di ogni donazione.
Una delle prime scoperte rilevanti è stata l'osservazione che le carcasse di maiale si comportavano in modo diverso rispetto ai corpi umani durante il processo di decomposizione. Questa scoperta, risultante da un approfondito monitoraggio stagionale della decomposizione, ha evidenziato la "decomposizione differenziale" negli esseri umani, rendendo più complessa la determinazione dell'ora della morte.
Uno studio condotto da Alyson Wilson, una studentessa con lode della Central Queensland University, ha rivelato che diverse parti del corpo, tra cui lineamenti del viso e mani, mostrano movimenti durante varie fasi di decomposizione, influenzando il lavoro investigativo sulle morti inspiegabili.
L'odore dei corpi è stato oggetto di un'ulteriore scoperta, con il team che ha identificato differenze significative tra l'odore dei maiali e quello degli esseri umani. Questa differenza impedisce l'utilizzo dei maiali per addestrare cani al rilevamento dei cadaveri.
Una scoperta di particolare rilevanza riguarda la mummificazione dei resti umani, un fenomeno che si verifica in modo inaspettato e in diverse stagioni dell'anno, influenzando l'accuratezza nella stima del tempo trascorso dalla morte.
Oltre all'UTS, il progetto AFTERS coinvolge 16 organizzazioni partner, tra cui università, agenzie forensi e forze dell'ordine. La ricerca sul sito ha una portata ampia, concentrandosi sull'ottimizzazione della ricerca di persone scomparse, sulle tecniche di calcolo dell'ora della morte e sull'identificazione del corpo, fornendo già notevoli risultati utili alle indagini delle forze dell'ordine.
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Laura Liberale 29/10/2020
Intervista ad Alessia Zielo, archeo-tanatologa e divulgatrice scientifica
Docente al Master in “Death Studies & The End of Life” (Università degli Studi di Padova). Si è occupata in particolare dei riti funebri e delle modalità di deposizione delle sepolture del passato e della società contemporanea. È docente in corsi di formazione per infermieri nell’ambito delle medical humanities.
Curatrice della sezione Il morire: Antropologia e tanatologia del Portale:
vivereilmorire.eu. Tra le pubblicazioni: Testoni, I., Zielo, A., Schiavo, C., Iacona, E. (2020). The Last Glance: How
Aesthetic Observation of Corpses Facilitates Detachment in Grief Work. Illness, Crisis & Loss 0(0) 1–17. Zielo, A.,
Liberale, L. (2019). Trasformazioni identitarie post mortem nel mondo antico occidentale e orientale, in Zorzi
Meneguzzo, L., Testoni, I. (a cura di) (2019). “Identità: costruzioni plasmate dai lutti”, Arcane Editrice. Zielo,
A..(2018). Officiare il rito funebre nel mondo antico. In Gelati, MA. (a cura di). “Ritualità del silenzio. Guida per il
cerimoniere funebre”. Nuova Dimensione. Zielo, A. After-Death Manipulation: The Treatment of the Skull in
Prehistoric Funeral. August 22 2018, Global Journal of Archaeology & Anthropology (GJAA), 427 W Duarte Rd,
Suite E, Arcadia, California, CA 91007 United States. A cura di Coron, D., Zielo A. (2015). Vedere oltre.
La spiritualità dinanzi al morire: dal corpo malato alla salvezza, Raccolta antologica di poesie e racconti. Rupe Mutevole.
L’archeologia, e in particolare lo studio e la decodificazione delle sepolture antiche, può
contribuire a comprendere maggiormente i cambiamenti dei rituali sia contemporanei che futuri?
In passato si era soliti pensare all’archeologia come a una disciplina prevalentemente umanistica,
interessata a recuperare i reperti “più esteticamente rappresentativi”. In seguito, si è compreso che
era necessario cercare il dialogo con altri ambiti di studio, per trovare nuovi orizzonti nella
comprensione dell’avventura dell’uomo attraverso il tempo e far collaborare archeologi con
architetti, informatici, geologi, fisici e chimici. Per esempio, nell’ambito dell’archeologia
tafonomica (lo studio delle alterazioni subite da un corpo dopo il suo seppellimento), risulta
importante avvalersi della medicina legale, dell’antropologia, della paleopatologia. Inoltre per
comprendere meglio una sepoltura è determinante l’analisi dei resti umani, il restauro e la
conservazione dei materiali osteologici. L’approccio archeologico permette di conoscere le
modalità di deposizione; i diversi tipi di giacimenti funerari; le sepolture primarie e secondarie; la
disposizione delle offerte, degli elementi della parure e dell’abbigliamento. L’antracologia, in
particolare, si occupa di analizzare i resti di carbone provenienti dalla combustione del legno usato
nei rituali funebri (le pire). E’ di fondamentale importanza inoltre analizzare con un approccio
scientifico i reperti che rappresentano, anche simbolicamente, l’individuo ivi sepolto.
Un anno fa hai compiuto uno studio su un caso di morte recente evidenziando l’importanza
della metodologia archeologica ed antropologica. Di che cosa si trattava?
Ci sono affinità evidenti tra la figura dell’archeologo, che procede a ritroso indagando sul passato
fino alla spiegazione possibile di un contesto, quella del detective che opera sulla scena del crimine
per ricostruire un omicidio, e quella dello psichiatra che, “scavando” a ritroso nella “storia” di un
paziente, ricerca la possibile origine psichica delle patologie mentali. Un archeologo “indaga” per
contestualizzare i reperti, per decodificarli, per datarli. Si chiede “come, quando e perché”. Al fine
di accertare elementi o fatti rilevanti per le indagini, gli archeologi forensi applicano le metodologie
proprie dell’archeologia (ricognizione, tecniche di rilevamento, scavo stratigrafico, archiviazione e
classificazione dei reperti) per la localizzazione e il recupero dei resti e per lo studio delle modalità
e dei processi di deposizione, anche in considerazione del contesto di ritrovamento. L’analisi e
l’identificazione dei resti ossei umani per procedere alla redazione di un profilo biologico è
demandata invece agli antropologi e agli odontologi forensi.
A volte la scena del crimine non è una stanza, uno scantinato, un sottopassaggio o una strada, ma è
sepolta: frammenti di ossa umane affiorano dopo una pioggia torrenziale; un cadavere in avanzato
stato di decomposizione viene rinvenuto durante uno scavo in un cantiere edile; un collaboratore di
giustizia suggerisce il luogo dove sarebbe stato occultato il corpo di una vittima d’omicidio.
Il corpo deve quindi essere individuato e recuperato; deve essere stimato il tempo trascorso dal
decesso, le cause di morte, le modalità di occultamento. Grazie all’analisi del contesto, allo scavo
stratigrafico in situ, l’archeologo forense è in grado di fornire elementi utili alle Forze Investigative
inserendosi come tecnico tra le discipline specialistiche che allargano il mondo della Medicina Legale edivenendo un ulteriore interlocutore della Magistratura.
Mi interessai, in particolare, del caso della morte di un ragazzo, Nicola Tincani, scomparso la sera
del 22 febbraio 2014 dopo una serata trascorsa in un locale della provincia di Padova in compagnia
di alcuni amici. Dopo due giorni il suo corpo viene trovato poco distante dalla sua bicicletta. Che
cosa era accaduto? Come e perché era finito in acqua? Ad oggi il caso è ancora archiviato. Rimane
un orizzonte di risoluzione la caparbietà con cui i genitori a tutt’oggi, tramite il legale di fiducia,
ancora richiedono la riapertura del caso con un notevole dispendio emotivo ed economico.
A distanza di alcuni anni rimangono tanti, troppi dubbi sulle reali cause che hanno condotto alla morte
di Nicola. L’impressione da osservatore partecipante esterno mi ha indotto a far emergere
l’incompletezza, la mancanza di spiegazioni adeguate e complete che supportassero la teoria
dell’incidente. Sarebbe poi emersa la mancanza di tempestività nella fase di analisi di tracce che
erano fondamentali, la loro mancata repertazione sul luogo e l’analisi sui vestiti e sul corpo stesso di
Nicola come si evince dai risultati dell’autopsia. Descrivere le reali condizioni del corpo indicando
il prelievo delle tracce dai capelli e sotto le unghie poteva fornire agli investigatori informazioni
molto utili.
La paura del morto è ancestrale, ha interessato tutte le culture, tra cui l’Occidente cristiano.
Secondo te vi è una spiegazione a questo comportamento così universale?
La morte rappresenta da sempre, e in quasi tutte le culture, il momento più traumatico e di crisi con
cui l’uomo deve confrontarsi: l’angoscia del distacco definitivo, l’assenza di certezze riguardo
l’oltretomba, la paura, l’immediata estraneità del corpo umano privo di vita, l’eventuale dolore e il
senso del vuoto incolmabile che lascia una persona amata.
Ritrovamenti archeologici e fonti letterarie testimoniano alcuni casi di riapertura di tombe e la
mutilazione del cadavere, atti dovuti probabilmente alla volontà di rendere definitivamente innocue
persone considerate malvagie, nefaste e pericolose, delle quali si temeva il ritorno in vita e alle quali
doveva essere imputato un evento inspiegabile, come morti dovute a epidemie. Le strategie per
fermare il morto e impedirne il ritorno si possono così catalogare in base ai ritrovamenti
archeologici: impedire l’uscita dalla tomba apponendo pietre sulle gambe e sul corpo; sepoltura
bocconi (ma forse questo rituale può riconnettersi anche a una modalità di esecuzione capitale);
legare gli arti con legacci di varia natura; usare oggetti apotropaici e funzionali, come chiodi che
fissano materialmente il corpo alla sepoltura, oppure un sasso in bocca; tagliare la testa e metterla
tra le gambe.
Il corpo dopo la morte può suscitare paura e ansia che possono ricondursi alle alterazioni cui il
cadavere va incontro in fase di decomposizione in un processo che può essere “alterato”
casualmente o intenzionalmente dalla natura e dalla cultura: si manifestano processi esclusivamente
naturali (fisici, chimici, biologici) che prendono il nome di «tanato-morfosi» (dal greco thánatos,
‘morte’, e morphé, ‘forma’) e trasformano il corpo in maniera irreversibile e radicale allontanandolo
sempre più dalla sua condizione biologica di organismo individuale e autonomo, oltre che dalla sua
condizione sociale di persona. Al momento del decesso di un individuo la società si trova ad
affrontare un enorme trauma che deve essere obbligatoriamente gestito ritualmente. La vita sociale
dei resti, in quanto forma di riappropriazione culturale, si presenta allora come la risposta positiva
delle comunità umane alla fine biologica.
L'adozione di pratiche tendenti ad assicurare la conservazione del cadavere è diffusa presso
numerose popolazioni. Quali erano le tecniche di conservazione del corpo nel mondo antico?
Fin dagli albori della civiltà, gli uomini hanno sempre cercato di preservare i loro morti dalla
putrefazione. Oltre alle imbalsamazioni degli Egizi e dei Guanches, sono stati utilizzati molti altri
metodi, indipendentemente dalla razza, dalla religione e dal clima. Sono stati ritrovati, in Africa ed
in Asia, dei corpi collocati dentro a cavità riempite di catrame, bitume, carbone di legna o con altri
prodotti ritenuti dei conservanti. In America Centrale ed in Perù, sono stati scoperti alcuni cadaveri
mummificati, sepolti in immense giare, riempite senza alcun dubbio di erbe, o di sale vegetale; tali
giare erano state poste dentro a grotte in cui l'aria era particolarmente secca e salubre, a temperatura
costante. Gli Egizi raggiunsero nell'arte d'imbalsamare i cadaveri una singolare perfezione,
testimoniata dalla conservazione delle loro mummie. Erodoto e Diodoro Siculo hanno lasciato
un'accurata descrizione dei loro sistemi: l'imbalsamazione era eseguita in un laboratorio chiamato
“la buona casa", da artigiani specializzati. Tecniche di conservazione del cadavere furono praticate
anche nel mondo greco-romano. Stazio ci riporta la testimonianza dell’uso di cera e altre sostanze
aromatiche e resinose della moglie di un liberto di Domiziano, scomparsa nel 95 d.C.: «gli anni non
potranno arrecare nessun danno al corpo di Priscilla, che rimarrà preservato nel tempo all'interno
della sua tomba di marmo».
È importante sottolineare che il risultato voluto era quello della mummificazione del cadavere, cioè
della sua conservazione eterna, e questo per uno scopo essenzialmente metafisico legato, nella
maggior parte dei casi, alle credenze nella metempsicosi. Bisogna aggiungere, comunque, che anche
l'igiene era, pur se in misura minore, una delle ragioni dell'imbalsamazione praticata su tutti i
defunti. L'Egitto sembra quindi avere inventato la conservazione in asepsi e l'eccellenza dei suoi
metodi ha fatto sì che i principi da esso utilizzati venissero ripresi anche nelle tanatoprassi moderne.
Lo scavo archeologico come metafora della nostra esistenza: è il titolo di un laboratorio che
proponi in ambito formativo a operatori sanitari e anche nelle scuole. Di cosa si tratta
esattamente?
Lo scavo, riferito metaforicamente alla nostra esistenza e ai passaggi frequenti che dobbiamo
attraversare (come accade spesso agli adolescenti), può anche rappresentare l’occasione in cui far
emergere, strato dopo strato, i ricordi che costituiscono l’identità di una persona e dei suoi rapporti
con l’ambiente familiare, sociale e culturale. Viene introdotto il metodo dello scavo archeologico
per far emergere “la propria storia”, così come accade nell’ambito della ricognizione di una
sepoltura antica laddove ogni oggetto assurge a simbolo della social persona che è stata sepolta.
I linguaggi della cura per chi cura, in particolare, è il titolo di un importante progetto che io,
insieme a Laura Liberale, Maria Giardini e Federica Lo Dato, stiamo proponendo a tutti quei
medici, infermieri e operatori sanitari che hanno dovuto fronteggiare un’emergenza sanitaria quale
l’epidemia del Covid 19. Da fine febbraio 2020 tutto il personale sanitario è sottoposto
costantemente a uno stress emotivo altissimo: una pressione difficile da sostenere e che, se non
gestita adeguatamente, potrà portare ad un crollo emotivo nel prossimo futuro. Il nostro gruppo di
lavoro multidisciplinare nasce dall'esperienza condivisa nell’ambito degli death studies (ricerche
sull’accompagnamento alla morte e sulla elaborazione del lutto) e, in particolare, nei progetti e
seminari sulla resilienza con l'utilizzo di metodologie attive innovative. Nell’ambito di questa
proposta vi sono, accanto agli interventi di tipo psicoterapico, i seminari relativi alla scrittura e alla
archeologia riabilitativa, utilissime strategie per valorizzare il lavoro dei numerosi caregivers a
contatto ogni giorno con la malattia e la morte.
Laura Liberale 11/04/2021
Un Percorso di Death Education
Laura Liberale intervista Elena Alfonsi
Perché ti occupi di raccontare la morte attraverso l’analisi delle opere d’arte?
Le opere d’Arte sono una straordinaria opportunità per fornire concretamente all’individuo la
dimostrazione di come le dimensioni individuali, relazionali, sociali entrino inevitabilmente in
gioco nei rapporti tra morte, cultura e storia; situazioni sociali e biografie individuali; condizioni di
malattia e vita quotidiana; perdite ed elaborazioni nelle diverse età della vita; interiorità e codici
comportamentali condivisi.
Se riteniamo che la cultura del mondo debba essere tutelata, ossia difesa e salvaguardata, poiché
fondante per la vita degli uomini, dovremmo ritenere, a maggior ragione, che anche la vita degli
uomini debba poter essere tutelata quindi difesa e salvaguardata ma anche: assistita, curata, protetta.
A questo proposito il percorso di DeAd che propongo, e che si intitola La Morte nell’Arte pone
attenzione, con l’ausilio delle immagini di opere d’Arte, alla sofferenza, al dolore e alla perdita
cercando di riconoscere nelle creazioni artistiche dell’uomo i profili dell’angoscia causata
dall’incontro con la morte e osservare come gli artisti abbiano gestito il suo racconto. L’insieme
delle opere d’Arte prese in considerazione daranno la possibilità di instaurare un confronto culturale
ampio in grado di promuovere l’integrazione della morte nella vita.
L’Arte permette di continuare a sensibilizzare la società sulla fondamentale importanza di divulgare
il lavoro dei professionisti che si occupano della cura dell’angoscia per la morte. Questo con
l’educazione, che è formazione, per portare a considerare le esperienze di perdita (intesa nelle sue
varie accezioni) e di lutto, come parti essenziali del senso della vita.
La paura di morire, di un corpo che si trasforma e della sua successiva decomposizione sono
ossessioni da emarginare. Per questo è indispensabile colmare la distanza che separa il pensiero dei
vivi dal loro giungere comunque inesorabilmente a un termine conducendo la società a raggiungere
un conveniente livello intellettuale e morale per divenire: “amica della morte” - “alfabetizzata dalla
morte”.
Guidare alla presa di coscienza dell’ultimo avvenimento della vita umana, reintegrando il pensiero
della morte nella vita collettiva, è un terreno educativo da presidiare in una prospettiva didattica
costante, non emergenziale né riparatoria ossia che tenda ad allontanarne o peggio sradicarne il
ricordo. Dobbiamo invece favorire il riavvicinamento dell’uomo al pensiero della morte. L’obiettivo
è rendere cosciente la comunità della fondamentale importanza di un percorso di consapevolezza
dell’esistenza di un fine vita nell’inscindibile rapporto con la vita. Attraverso la cultura potremo
sempre riflettere sulla cessazione delle funzioni vitali nell’uomo per rendere gli individui più maturi
e di supporto nei riti di passaggio per la pace dei vivi.
Le immagini di opere d’arte create da artisti del passato o contemporanei, stimolano a una
osservazione in grado di scomporre segno e colore, offrendo l'opportunità di un nuovo sguardo
dell’opera che ha in sé la morte quale fondamentale potenza creativa tutt'altro che scevra da un
assillante pensiero.
Quali sono le opere d’arte che prendi in considerazione?
Sin dall’antichità il compianto, il rito funebre e la sepoltura sono stati rappresentati da una
complessa gestualità e da una serie di credenze e superstizioni. Si trattava di riti di passaggio che
accompagnavano il corpo del defunto assicurando il distacco della sua anima e l’impossibilità di
ritornare nelle spoglie di un fantasma. La Chiesa tentò di attribuire a queste ritualità un fondamento
di fede, ma risultò molto difficile anche soltanto accostare il rito antico a valori cristiani. Benché
l’impresa fu irta di ostacoli il cordoglio collettivo, il funerale e la sepoltura, nel corso dei secoli
acquisirono un valore distinto di cerimonie di un “esodo” dell’anima dal corpo senza più vita alla
vita eterna, dannata o beata che fosse, e attribuirono ai vivi il ruolo di intermediario affinché i morti
giungessero più agevolmente in Paradiso. Era quello il momento del commiato in cui la ritualità
formulava la richiesta di riposo e luce eterna che contraddistinguono la pace della vita oltre la morte
terrena.
La persistenza delle tradizioni antiche, l’avvicinamento di motivi cristiani e il dolore umano
espresso di fronte al corpo morto hanno caratterizzato il rito funebre, già codificato da liturgia e
legislazione, estremamente complesso anche da raffigurare. Nell’ambito della rappresentazione
passionale figurativa molti studiosi, con non poche difficoltà, si sono impegnati a ricostruire la
ritualità che ha permesso di osservare il modo etimologicamente originario di intendere la passione.
Partendo da questo specifico significato l’analisi delle opere d’arte, del passato o contemporanee
che contengano elementi di relazione con la morte del corpo o rappresentino la morte di un corpo
come tipi diversi di configurazione, ritengo possa essere fondamentale per la narrazione della morte
in contrapposizione alla paura di morire.
Quali casi ritieni possano essere il fondamento dello studio sulla rappresentazione della morte?
La morte di Cristo o il martirio di San Sebastiano sono i due casi che ne danno una versione
particolare, ossia la morte come atto del morire poiché è coinvolta una tematica passionale che è
l’atto puntuale del morire. È questo il motivo per cui è inevitabile il coinvolgimento di
un’aspettualità della sofferenza: incoatività dell’agonia, puntualità dell’atto di morte, duratività
dell’essere morti. Da qui e dalla struttura che ne deriva è possibile vedere come la natura aspettuale
del morire in alcuni periodi storici venga caricata di contenuti ideologici che per essere espressi
nell’arte dovranno presentare figure particolari che siano in grado di rappresentare tale aspettualità.
Tuttavia parlare della morte come figura rappresentata è parlare della fisionomia della morte come
accadimento fisico che coinvolge l’essere umano, ma anche dei suoi simboli e dei suoi emblemi.
Tra gli artisti contemporanei che hai inserito nella tua ricerca quale potresti segnalarci in questa
occasione di dialogo?
Sono felice che tu mi abbia fatto questa domanda Laura perché mi permette di citare un artista
italiano di fama internazionale che ammiro: Agostino Arrivabene. Ritengo che tra le opere ancora
nel suo studio, una sia l’emblema di questa estenuante pandemia. È un lavoro del 2016 intitolato
Martyrii Corona che fu esposto in una ricca personale alla Casa del Mantegna a Mantova proprio in
quell’anno. Ricordo con chiarezza che quando la vidi mi si palesò immediatamente non solo una
precisa immagine di morte, ma anche la sensazione di percepirne la temperatura e l’odore. Non il
corpo ma l’interpretazione perfettamente rifinita, nello stile di un’artista di pittura meditativa colta,
di uno dei simboli della passione di Cristo: la corona del martirio. In uno spazio in cui la luce
sembra persino riluttante ad assumere il ruolo che le compete, una corona di capillari sanguiferi
posa in bilico di fronte a chi osserva su una spessa lastra marmorea dipinta a tutta lunghezza.
Un’architettura dal personale grafismo a punta di pennello, una fitta rete di sottilissimi vasi che
sembrano agitarsi come le ciocche sconvolte della “capellatura” medusea. Adagiata con sublime
delicatezza Martyrii Corona travalica lo stato di incertezza e precarietà dell’uomo, citando una
canestra del passato che riferiva della transitorietà tra la vita e la morte. L’ariosa consistenza
plastica posta al centro della pietra dirama come da una spina, verso l’alto e verso il basso, mentre il
calore che l’abbandona esala e si eleva con sottili stalagmiti cuneiformi. Essa tenta la fusione tra i
due mondi in uno schema derivato in pittura dai fiamminghi, visto in Bellini, in Mantegna, che
contrappone al gelido piano la danza di sangue arborescente, non ancora coagulato, percorso dalla
luce. Vibranti di quel colore, che forse più di tutti riporta alla realtà della morte, gli elementi
organici appaiono fisicamente tangibili inondati dalla delicata luminosità che non assorbe il dramma
ma al contrario lo amplifica e lo mette a nudo fondendolo al freddo e all’angoscia stimolata dalla
rigida pietra. Inevitabile legare il sentimento umano di chi osserva all’evidenza del sapiente studio
del disegno dall’antico, della sua comprensione, dal fatto di saper vedere il vero ed essere in grado
di trasformarlo in un’opera universale mai così attuale e capace di parlare nel tempo. Un dipinto
geniale e di forte intensità perché Martyrii Corona è il pianto dei dolenti che in questo triste
momento della storia dell’uomo sono stati travolti dal dolore per la morte dell’altro. Anche il rigore
della rappresentazione ci pone di fronte ad un crescendo di linee parallele in una prospettiva
bloccata, tagliata ai lati per attribuirle un valore psicologico: ciò che è dettato dal rigore scientifico
presuppone una lettura attenta. La pietra dipinta a marezza fornisce indicazioni precise sulla sua
consistenza e permette di comprendere le capacità dell’arte attraverso le qualità pittoriche di resa
che dimostrino come le opere che possiedono la forza di coinvolgere, debbano necessariamente
vedere unite nell’artista pittura e intelletto. Inevitabile che questa immagine non possa che rimanere
impressa in modo indelebile nella memoria per il rigore composto della tecnica, la precisione
prospettica, la capacità di rappresentare la realtà fatta di minuti particolari, l’invenzione
nell’accostare gli elementi. Una serie di passaggi bilanciati e graduali impongono allo sguardo di
procedere lungo la verticale dell’opera e scivolare sulla materia diversa. Il segmento temporale del
racconto, dal martirio alla gloria raggiunta con il sacrificio della vita, è preghiera di dolore. Ed è
così che l’esaltazione della sofferenza, di quel sangue versato, è passione che rivive nella perdita di
vigore materico in un progressivo levarsi al cielo. Una supplica ricreata sul ribaltamento della
consistenza, da solida a vapore che come fiamma trionfante ci esorta a non perdere la speranza.
In questa rappresentazione della morte vi è uno dei modelli di costruzione pittorica. Daniel Arasse
ha ben dimostrato che la prospettiva di Filippo Brunelleschi presenti un’esigenza di esattezza e di
coerenza della scena della pittura indipendentemente da ciò che vi si rappresenta, per cui attenzione
allo spazio. Leon Battista Alberti invece propone una prospettiva dove esattezza e coerenza sono in
funzione della narrazione, quella da lui definita “istoria”. Eppure, benché senza corpo, quest’opera
riveste un ruolo pedagogico-emozionale e stimola a provare passione poiché il meccanismo di
identificazione che si innesca tra il dipinto e colui che osserva, proprio in questo specifico tempo di
grande sofferenza del mondo, si attiva dalla dichiarata equivalenza di passione come movimento
dell’animo e il movimento creato dalla pittura. Mi pare evidente che questo modello possa essere
inserito nelle sfide alla natura della rappresentazione bidimensionale statica, dove lo spazio coerente
ed esatto è un principio ottico e geometrico. D’altro canto non potremo esimerci dal considerare in
questo luogo di dolore la possibilità di includere anche ciò che non è mai omogeneo alla natura del
piano dell’espressione della pittura, ossia la linearità della dimensione temporale del movimento,
cioè dell’azione.
Grava sull’uomo la drammatica esperienza di troppe improvvise sottrazioni e in questa tela il
messaggio è chiaro quand’anche raggiunga lo sguardo più vano. Forte è l’opera che seduce e nutre
il pensiero con immagini che raccontino del tempo che porta il morire di chi amiamo e di noi.
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Elena Alfonsi
Laureata in Storia della Critica d'Arte all'Università degli Studi di Padova scrive dal 1992 come Critica d'Arte.
Dal 2018 è Presidente dell'Associazione Culturale Aretè. Dal 1992 al 1997 a Milano è Consulente Scientifica per le acquisizioni della collezione privata appartenuta al Dott. Giorgio Cappricci.
Dal 1992 al 1999 è a Venezia come Consulente Scientifica di una Collezione Privata. Abita a Mantova ed è Critica d'Arte indipendente diplomata in Tanatologia Culturale al Master Death Studies e the End of Life - Dipartimento FISPPA - Università degli Studi di Padova con cui collabora dal 2018. Si occupa di arte, cultura e Death Education attraverso la pittura, la scultura, la fotografia, la letteratura, la poesia. E’ scrittrice, ideatrice di progetti didattico–culturali, di progetti di responsabilità etica a sostegno della cultura, di laboratori didattico formativi per un corretto approccio all’arte. Dal 2017 organizza a Mantova, nella prestigiosa sede della Casa del Mantegna una Rassegna di Cultura intitolata Alla fine dei conti. Riflessioni sulla vita e sulla morte.
Dal 2018 promuove il Progetto “La morte nell'Arte. La cultura veicolo di sviluppo”. Dall’A.A. 2019/2020 è Docente Esterna di Storia dell'Arte e Storia della Critica d'Arte alla Accademia Internazionale dell'Intaglio a Bulino e Belle Arti di Bruno Cerboni Bajardi a Urbino. Dal 2019 collabora con l'Istituto Mantovano di Storia Contemporanea di Mantova.Dal 2022 come Socia AGC sarà l'organizzatrice di un'esposizione itinerante, la prima in Italia, dedicata al Gioiello Devozionale Contemporaneo in collaborazione con AGC Associazione Gioiello Contemporaneo, che inizierà da Padova nell'Oratorio di San Rocco per poi proseguire in altre sedi.
Laura Liberale 17/09/2020
Parte, da questo mese, una nuova rubrica: “Tanatodialoghi”, a cura della tanatologa Laura Liberale. Si comincia con Maria Angela Gelati.
Parte, da questo mese, una nuova rubrica: “Tanatodialoghi”, a cura della tanatologa
Laura Liberale. Si comincia con Maria Angela Gelati.
Benvenuta, Maria Angela, e grazie.
Comincerei proprio dal tuo impegno didattico, in prima linea anche in questo
momento di emergenza. La formazione specialistica di cui ti stai occupando nasce
dalla presa d’atto di come questa pandemia abbia universalmente stravolto la sfera
rituale del commiato, generando quello che tu hai giustamente definito “un lutto nel
lutto”. Parliamone.
Le diverse esigenze degli operatori e dei cerimonieri funerari, legate alla necessità di
dare riscontri alle richieste determinate dall’attuale emergenza sanitaria, hanno
interessato sia la sottoscritta che l'intero sistema funerario. E la risposta concordata ed unanime delle Federazioni del settore si è concretizzata con l’ideazione di un corso sui riti e le ritualità per onorare i defunti, in questo periodo di diffusione
dell’epidemia. Proprio le limitazioni imposteci, hanno condizionato il percorso
rituale che al momento non potrà avere le stesse caratteristiche delle cerimonie
tradizionali.
I divieti e le limitazioni, che non riguardano solo la preparazione e la cura del
defunto, con l’igiene e la vestizione del corpo, ma l’impossibilità di vedere e toccare
il proprio caro, frustrano ed inibiscono i sentimenti, impedendo di vegliare chi
amiamo. Il feretro viene chiuso frettolosamente, a volte anche senza una preghiera o
una benedizione o qualche parola di conforto del cerimoniere.
La fretta e la paura del contagio si sono sostituite alla elaborazione del lutto, la
cremazione alla tradizionale sepoltura.
Il lutto nel lutto perché l’ultimo saluto, concepito come prima, non esiste più. Come
non ci è permesso abbracciarci, scambiarci parole di sollievo che prima il rito
consentiva, così ora manca quel sentirsi parte della famiglia e della comunità.
Funerali online, dirette streaming: l’obbligo del distanziamento ci vede ricorrere a
una modalità di funerale che, pur non essendo nuova in termini temporali (penso
soprattutto a Stati Uniti e Gran Bretagna), è però del tutto nuova nel suo imporsi, in
questo momento, come unica modalità di condivisione allargata.
La tua visione in merito?
La mancanza del supporto della comunità, religiosa o laica che sia, destinato a far
superare il senso di afflizione e di angoscia, ora viene sostituito da una diversa
modalità di ciò che il rito sottende, nelle parole e nei gesti, nel tempo e negli spazi a
disposizione: con il coinvolgimento dei bambini, ad esempio, che hanno perduto i
nonni, la cui fragilità è stata sovrastata dalla pandemia.
Il rito che, riconsiderato e riletto, viene “tradotto” dagli strumenti digitali ed
informatici a disposizione, il cui utilizzo nonostante i pregiudizi, sta permettendo di
scoprire impensabili capacità (anche la Chiesa sta dimostrando di utilizzarli):
computer, smartphone, tablet e qualsiasi strumento che permetta la creazione di
contatti, anche attraverso la mediazione dello schermo, permettono di diluire nel
tempo l’atipicità del percorso rituale, le cui sfaccettature ne precludono alcune fasi
ma ne permettono altre, anche se diverse.
Ti chiedo anche se pensi che questa forma di funerale possa sostituirsi del tutto,
almeno finché così sarà ritenuto necessario, alle precedenti, oppure se, a beneficio dei
dolenti, sarà utile, quando possibile, “integrarla” con le tradizionali forme di
commiato, implicanti presenza fisica, vicinanza e contatto?
Come ogni evento che comporta trasformazioni epocali, ci sarà un prima e un dopo.
La fase del post emergenza sarà probabilmente caratterizzata da una sorta di
integrazione tra invenzione e tradizione, peraltro già avvertita e messa in atto a
livello rituale, in particolare con la nascita delle aule del commiato e di nuove figure
professionali come quella del cerimoniere funebre.
In questa fase di transito, occorre dare voce e consapevolezza a nuove forme
personali di saluto, per trasformare il dolore e le lacrime in parole e azioni
condivise.
In quali modi, secondo te, la figura del cerimoniere funebre può “ricollocarsi” nel
contesto emergenziale che stiamo vivendo?
L’innegabile inizio di una nuova era, tesa ad affrontare e superare l’emergenza
sanitaria, ha contribuito anche a far nascere forme rituali alternative di commiato
che intendono, nella loro essenzialità, rendere il dolore più sopportabile. Tra queste,
la figura del cerimoniere che, per la Casa funeraria o per l’impresa funebre, diviene
figura di fiducia per i dolenti sia nell’organizzare un momento commemorativo
online sia nel raccogliere le informazioni necessarie per riuscire a dare un attimo di
sollievo, personalizzando l’ultimo saluto, con il racconto ed il ricordo di momenti di
vita del defunto.
La sua presenza diviene ancora più significativa in alcune fasi cruciali del percorso
rituale, come nel rito di consegna delle ceneri, la cui gestione, a causa della
situazione dei crematori, congestionati fino a pochi giorni fa, rendeva impossibile
garantirne con certezza i tempi di affidamento.
Penso alle fosse comuni di Hart Island, negli USA. Ti chiedo di immaginare, come
studiosa, cerimoniere e scrittrice, un rito pubblico che possa onorare la loro memoria.
Ho predisposto, al riguardo, alcuni schemi rituali per cercare di sostenersi nella
dimensione commemorativa, vivendo un momento collettivo, che possono ben
adattarsi anche ad Hart Island.
A pochi giorni dalla parziale riapertura alle frequentazioni ed ai contatti, sono state
attivate diverse tipologie di servizi di supporto al lutto per integrare le carenze della
vicinanza e della presenza fisica.
Le persone che sono morte in questo terribile periodo fanno parte di un dramma che
accomuna tutti e che, d’altro canto, fa sentire la forza del vivere, proprio quando la
vita termina e conferisce nuovo valore al senso della comunità e dell’appartenenza
sociale, creando nuovi modi per stare insieme e condividere i sentimenti.
La poesia, la musica, gli oggetti-simbolo sono sicuramente elementi significativi che
possono integrarsi all’energia ed alla vitalità della straordinarietà della
commemorazione pubblica.
Maria Angela Gelati, tanatologa e formatrice nelle materie collegate alla morte, al
lutto ed alla Death education. Ideatrice e curatrice, insieme a Marco Pipitone, della
prima Rassegna di Cultura in Death Education Il Rumore del
Lutto (www.ilrumoredellutto.com), è giornalista e blogger. Nel 2016 ha co-fondato
l’Associazione Segnali di Vita e il Gruppo Nazionale di Lavoro “Stanza del Silenzio
e dei Culti”.
Come docente collabora con molte realtà tra le quali il Master Death Studies & the
End of Life (Dipartimento FISPPA) dell’Università degli Studi di Padova (diretto
dalla Prof.ssa Ines Testoni).
Autrice di numerosi articoli e saggi inseriti in miscellanee, ha pubblicato le favole di
Death Education Il lecca-lecca di cristallo (Terra marique, 2018) e L’albero della
vita (Mursia, 2015). Ha curato i libri Ritualità del silenzio. Guida per il cerimoniere
funebre (Nuovadimensione, 2018) e Ci sono cose che (Diritto d’autore, 2012).
Il suo impegno umano e scientifico contribuisce al miglioramento di una corretta
cultura della vita che ha in sé la morte.
Laura Liberale, tanatologa e indologa, è laureata in Filosofia (Università degli Studi
di Torino), è dottore di Ricerca in Studi Indologici (Università La Sapienza di Roma),
docente di scrittura al Master in Death Studies & the End of Life (Università degli
Studi di Padova). Da diversi anni tiene corsi e seminari di scrittura creativa e di
Cultura e Filosofia dell'India. Ha ottenuto riconoscimenti in svariati premi di poesia e
narrativa. È docente in corsi di formazione per infermieri nell’ambito delle medical
humanities. Ha pubblicato i romanzi Tanatoparty (Meridiano Zero, 2009),
Madreferro (Perdisa Pop, 2012), Planctus (Meridiano Zero, 2014); le raccolte
poetiche Sari – poesie per la figlia (d’If, 2009), Ballabile terreo (d’If, 2011), La
disponibilità della nostra carne (Oèdipus); i saggi indologici I mille nomi di Gaṅgā
(Edizioni dell’Orso, 2003), I Devīnāmastotra hindū – Gli inni purāṇici dei nomi della
Dea (Edizioni dell’Orso, 2007), I nomi di Śiva (Cleup, 2018). È presente tra gli autori
di Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012).