L’ importanza di idonei servizi funebri per dare alla “morte” la valenza sociale che merita

Nicolas Tiburzi 14/12/2022 0

Recuperare una cultura del fine vita e re-inventare il rito funebre è fondamentale: la rilevanza di

questa necessità non riguarda solo il campo psicologico dell’ individualità, ma la dimensione

sociale della collettività.

Il rito funebre permette di esorcizzare la morte, fare fronte all’angoscia che essa rappresenta,

alleviare il senso di solitudine. Condividere il dolente momento ed elaborare la perdita consente

numerosi vantaggi anche a livello psicologico. Da una dimensione individuale, a una dimensione

condivisa: i servizi funebri devono restituire all’ “evento morte” la valenza socio – culturale che

decisamente merita!

 

Senza dubbio, il culto della morte e dei morti è da sempre un elemento caratterizzante di ogni

popolazione.

Il rito funebre, variabile per culture, usi, tradizioni, epoche, è stato nel corso del tempo oggetto

di diverse modifiche, ma nei fatti, si parla sempre di gesti e comportamenti socialmente

condivisi e riconosciuti, finalizzati a dare dignità e in qualche modo “esorcizzare” il timore e la

paura dell' evento morte, ma anche ad elaborare il doloroso momento della perdita.

Ad oggi, la tematica è quasi un tabù, un tema scomodo che si cerca di evitare. Come se la

morte non ci toccasse, un po' come rimandare il pensiero per non volercisi “soffermare”.

Nei fatti, invece, essendo questo un dolente accadimento che ci dobbiamo trovare tutti, prima o

poi, ad affrontare, merita di essere preso in considerazione con luce nuova.

 

La morte è a tutti gli effetti circondata da gesti simbolici e questo è un tratto distintivo dell’uomo.

Fa parte della natura umana, infatti, rivolgere cure, attenzioni e sentimenti verso i defunti.

Secondo noi di Tanmagazine, non è solamente quanto mai necessario recuperare una cultura

del fine vita, ma esiste anche - e soprattutto - un grande bisogno di re-inventare il rito funebre, e

i servizi ad esso collegati.

E la rilevanza di questa necessità non riguarda solo il campo psicologico dell’ individualità, ma

la dimensione sociale della collettività.

Non ci sono dubbi, infatti, che il dolore provato e mostrato per la perdita di una persona cara

segua una serie di rituali, amari e consolatori, nonché il bisogno di elaborare il lutto e la perdita.

In questo senso, i servizi funebri non possono esimersi dall’ esserne all’ altezza: si tratta di

accompagnare questo momento verso un passaggio naturale, da vita terrena a “memoria”, in

modo quanto più dignitoso possibile.

 

Siamo pienamente consapevoli che ad, oggi, il rito funebre, nell' immaginario e nella cultura

condivisa, non sia affatto “sentito”.

Un tempo c’era più attenzione e cura per il defunto, ma, anche in questo campo, gli usi e i

costumi cambiano, e adesso, molte tradizioni che prima erano rilevanti, non esistono più.

E’ come se il tema della morte e le questioni ad essa connesse fossero state socialmente

rimosse, destinate all’ombra di un inconscio collettivo, cercando di negare e rimuovere le

 

emozioni negative che la perdita porta con sé.

Eppure, l’ importanza del rito funebre è fondamentale.

 

Oggi, la ritualità sociale legata alla morte rimane sì, ma in forma ridotta.

Basti vedere cosa avviene dopo la scomparsa di una persona cara. Il più delle volte parenti e

amici porgono l’ ultimo saluto al defunto abbastanza frettolosamente, o all’interno delle mura

domestiche,

oppure nelle strutture sanitarie, dentro i freddi obitori degli ospedali, luoghi profondamente

inidonei a garantire la necessaria intimità e riservatezza. Altre volte, invece, ci si limita

solamente ad un saluto presso la camera ardente.

Tra l’ altro, in queste situazioni, la salma, provata dal trapasso, si presenta agli occhi delle

famiglie, ovviamente, non in perfette condizioni, anche da un punto di vista puramente

“sensoriale”.

In ogni caso, gesti frettolosi e impersonali non sono certo adatti a rappresentare a pieno i

desideri e le volontà di raccoglimento di famiglia, parenti e amici, che avrebbero bisogno di

tempo per ricongiungersi col caro scomparso, per pregare o, ad ogni modo, per ricordarlo.

Le cerimonie poi sono sempre più spesso laiche, oppure si opta per una breve benedizione,

sbrigativamente, senza particolari emozioni.

Il rischio di tutto questo? Sicuramente, la “spersonalizzazione”. Il lutto è privato, nella pratica, di

gran parte della potenza emotiva e simbolica di un tempo.

Oggi è un evento vissuto spesso sotto forma non pubblica, un dolore che la persona deve

superare essenzialmente da sola, poiché la società tende, come già abbiamo detto, a negarne

e rimuoverne le dimensioni.

 

Nei fatti, possiamo dire che manca una vera e propria cultura, per il tessuto sociale e per le

famiglie, che possa far capire quanto il rito funebre sia invece importante.

 

Di fronte alla perdita di una persona cara, spesso si è confusi, insicuri, presi dall’onda delle

emozioni, travolti da un senso di angoscia e di tristezza.

Ecco che le ritualità legate alla morte hanno invece la funzione di agevolare il distacco di chi è

“mancato”, consentendo di avere a disposizione una rete sociale di supporto.

Psicologicamente e socialmente, il rito può presentare anche una lettura simbolica.

Permettendo di “mettere in scena” il dolore, il rito funebre lo porta infatti da una dimensione

individuale a una dimensione collettiva di condivisione.

Numerosi studi e ricerche sono infatti concordi nell’ affermare che il lutto non elaborato e non

trattato provoca angoscia e depressione negli individui e, di conseguenza, nella nostra società.

Il rito funebre, in quest’ ottica, permette invece di esorcizzare la morte, fare fronte all’angoscia

che essa rappresenta, alleviare il senso di solitudine.

Ecco che il ruolo di servizi funebri adeguati, in questo contesto, è essenziale.

Prima di tutto, si rende necessario dedicare attenzione e cura al defunto nelle operazioni di

veglia. E qui diventa cruciale la nostra Tanatoprassi, che consente di offrire maggiore dignità

alla morte, permettendo la conservazione della salma a lungo, in condizioni di igiene e

sicurezza.

 

E poi, diventano fondamentali una serie di operazioni “sociali”: partecipare attivamente al rito e

dedicare il tempo idoneo al caro defunto, vegliandone le passate spoglie e condividendo questo

momento, in serenità e raccoglimento, con le altre persone.

Tutto questo consente a “chi resta” di alleviare la sofferenza legata al lutto, elaborando il dolore,

il senso di solitudine e di abbandono. Un sostegno, un aiuto, anche pratico, per affrontare la

quotidianità e per riprendere la vita di sempre.

Non solo. La partecipazione attiva al rituale consente di evitare anche possibili complicazioni

future per chi ha subito la perdita, quali depressione e disturbi post traumatici da stress, su cui

numerosi sono gli studi - nel settore della psicologia e delle neuroscienze - che ne attestano la

profonda correlazione.

 

In conclusione, possiamo dire che di fronte alla tragedia o al dolore, il rito funebre può

consentire alle persone in lutto di accettare emozioni così complesse.

Spesso, i rituali significativi sono in grado di “placare”, “alleviare” sentimenti o sensazioni

negativi o, anche, esprimere ciò che le parole non possono e contribuire, così, all’ elaborazione

della perdita.

In quest’ ottica, riteniamo fondamentale quindi che i servizi funebri si porgano al servizio dell’

individuo e della collettività, contribuendo a dare all’ evento morte, ossia a quel momento

evolutivo dell’ indivuiduo che corrisponde al “fine vita”, la valenza socio – culturale che

decisamente merita.

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Nicolas Tiburzi 19/08/2021

La Chiesa può negare un funerale?

Se il defunto è un criminale mai pentito, può ricevere la benedizione di un sacerdote ed essere seppellito in un Campo Santo?

Chiedersi se la Chiesa può negare un funerale e quando può farlo obbliga a dare un’occhiata al Diritto canonico, ma anche all’essenza stessa della Chiesa cattolica. E pone anche qualche problema, per così dire, etico che viene spesso valutato di volta in volta a seconda del soggetto, delle circostanze e dal sacerdote.

La morte di Totò Riina, come prima quella di Bernardo Provenzano e di altri criminali che non si sono mai pentiti delle atrocità che hanno commesso, ha portato di nuovo alla luce la posizione della Chiesa sull’opportunità o meno di fare un funerale (pubblico o privato che sia) ad un delinquente di tale portata.

 Funerale di un criminale: cosa dice il Diritto canonico

In base al Diritto canonico [1]la Chiesa cattolica può negare un funerale se prima della morte il soggetto non ha dato alcun segno di pentimento dei suoi errori e se:

·                                 è notoriamente apostata, eretico o scismatico (cioè se è andato di proposito contro gli insegnamenti della Chiesa e della fede cattolica, anche se in apparenza ha osservato alcuni riti come quello del matrimonio o del battesimo dei figli);

·                                 ha scelto la cremazione del proprio corpo per ragioni contrarie alla fede cristiana;

·                                 è stato un peccatore manifesto.

Lo stesso articolo, però, invita a sentire il parere dell’ordinario del luogo (il parroco, il vescovo) e di sottomettersi al suo giudizio personale. Significa che ci potrebbe essere un sacerdote che, per suoi motivi di pensiero ed in coscienza, potrebbe decidere di negare o di accettare di celebrare il funerale di una certa persona o di benedire la sua salma.

Il giudizio del sacerdote: quando sì e quando no

Spesso la rabbia di fronte ai crimini commessi da una persona può portare a giudizi assolutamente comprensibili ma, di fronte alla sostanza della legge (in questo caso della legge ecclesiastica), non sempre corretti. Succede anche con le questioni che riguardano tematiche più profane: una sentenza che applica la legge alla lettera o l’interpretazione di un giudice può essere più o meno condivisa, ma quella è e quella bisogna accettare.

Nell’argomento che ci occupa, un sacerdote o un singolo vescovo hanno il titolo di decidere quando la Chiesa può negare un funerale? Tecnicamente sì, perché hanno ricevuto un mandato per rappresentare la legge divina, così come un magistrato lo ha ricevuto per rappresentare la «legge umana» (per chiamarla così).

Sta dunque al giudizio del prete o del prelato stabilire se il passato del defunto e le circostanze sociali permettono di poter celebrare un funerale pubblico o meno.

Ma se la famiglia chiedesse il funerale privato, lontano da tutti per non creare scandalo pubblico, il sacerdote come si deve comportare?

Qui si entra in un terreno molto delicato. Vangelo alla mano, la fede cristiana si basa sul perdono e sulla redenzione. La benedizione di una salma ed il rito funebre comportano, però, un perdono che viene concesso soltanto a chi lo chiede. Se uno non si pente di quello che ha fatto, di che cosa lo si deve perdonare? Se il defunto non lo ha fatto, nemmeno la famiglia può chiederlo al suo posto. Si può stare vicino ai parenti, li si può consolare se non hanno condiviso la vita del loro familiare. Tutto qui, però. Per la Chiesa, il sacramento della confessione è vincolato al pentimento. Di conseguenza, il sacerdote può rifiutarsi di benedire quella salma e, quindi, di celebrare un funerale anche alla presenza di pochi intimi.

Naturalmente, tutto è soggettivo. In teoria, l’articolo del Diritto canonico che abbiamo citato riguarda tutti i «peccatori manifesti», cioè anche i divorziati («non osi separare l’uomo ciò che Dio unisce», si sentono dire gli sposi), i ladri, chi crea pubblico scandalo. Ma mettere tutti sullo stesso piano sarebbe ridicolo: non si può paragonare un criminale come Riina ad un divorziato onesto o a un ladro di polli. Per questo, alcuni rappresentanti della Chiesa, fortunatamente verrebbe da dire, valutano di volta in volta il soggetto che hanno davanti. Altrimenti (forse) di funerali non se ne farebbero più.

Un criminale può essere seppellito in cimitero?

Teoricamente, e per i motivi che abbiamo appena spiegato, una persona che ha vissuto fuori dalla fede cattolica e che, manifestamente, ha vissuto facendo del male al prossimo non può essere seppellito in un cimitero se non ha chiesto il perdono di Dio. Il motivo non è semplice (come abbiamo appena visto) ma è chiaro: il cimitero non è un «deposito di salme» ma è un campo santo e benedetto destinato ad ospitare chi ha ricevuto il perdono divino attraverso un ministro della Chiesa cattolica. Quindi, chi non si è mai pentito di quello che ha fatto in vita e, per questo, non ha avuto un funerale cattolico, non può riposare in cimitero.

Qualche anno fa avevano fatto scalpore i funerali in pompa magna di Vittorio Casamonica a Roma. In quell’occasione Famiglia Cristiana aveva intervistato il teologo Silvano Sirboni che si espresse su quelle esequie degne di un principe del Rinascimento.

Il funerale non santifica la vita di nessuno – affermò Sirboni – mette le mani di ciascuno nelle mani della infinita misericordia di Dio”. A meno che non ci sia un rifiuto in vita da parte del soggetto in questione, tutti hanno diritto ai funerali in quanto battezzati “Magari sono stati infedeli al battesimo, ma la Chiesa prega anche per loro“, continuò.

 

Nessun parroco può rifiutare di celebrare un funerale, – continuò il teologo – a meno che non ci siano prove che sia stato rifiutato dal defunto stesso”.

 

Qualche anno fa anche il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, aveva intimato ai suoi sacerdoti di non celebrare in chiesa i funerali dei boss della camorra.

 

Conclusioni

La Chiesa non è un’istituzione sociale o umanitaria qualsiasi e che rivolge i propri servizi a chiunque, né tanto meno offre un servizio di onoranze funebri indifferenziato.

La celebrazione delle esequie ecclesiastiche è stabilita dal diritto canonico con riti, simboli e canti ben precisi per cui nessun fedele ha il diritto di modificare il rito liturgico. La Chiesa agisce in foro esterno in quanto non può giudicare le intenzioni del cuore e la responsabilità morale di ciascuno, ma può attenersi ai soli atteggiamenti espressi o dichiarati pubblicamente in vita. La Chiesa, tuttavia, prega per tutti i peccatori, per la loro conversione e ne invoca la misericordia divina.

 

 

Fonti:

Famiglia Cristiana
laleggepertutti.it

 

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Laura Liberale 17/09/2020

Parte, da questo mese, una nuova rubrica: “Tanatodialoghi”, a cura della tanatologa Laura Liberale. Si comincia con Maria Angela Gelati.

Parte, da questo mese, una nuova rubrica: “Tanatodialoghi”, a cura della tanatologa

Laura Liberale. Si comincia con Maria Angela Gelati.

 

Benvenuta, Maria Angela, e grazie.

Comincerei proprio dal tuo impegno didattico, in prima linea anche in questo

momento di emergenza. La formazione specialistica di cui ti stai occupando nasce

dalla presa d’atto di come questa pandemia abbia universalmente stravolto la sfera

rituale del commiato, generando quello che tu hai giustamente definito “un lutto nel

lutto”. Parliamone.

Le diverse esigenze degli operatori e dei cerimonieri funerari, legate alla necessità di

dare riscontri alle richieste determinate dall’attuale emergenza sanitaria, hanno

interessato sia la sottoscritta che l'intero sistema funerario. E la risposta concordata ed unanime delle Federazioni del settore si è concretizzata con l’ideazione di un corso sui riti e le ritualità per onorare i defunti, in questo periodo di diffusione

dell’epidemia. Proprio le limitazioni imposteci, hanno condizionato il percorso

rituale che al momento non potrà avere le stesse caratteristiche delle cerimonie

tradizionali.

I divieti e le limitazioni, che non riguardano solo la preparazione e la cura del

defunto, con l’igiene e la vestizione del corpo, ma l’impossibilità di vedere e toccare

il proprio caro, frustrano ed inibiscono i sentimenti, impedendo di vegliare chi

amiamo. Il feretro viene chiuso frettolosamente, a volte anche senza una preghiera o

una benedizione o qualche parola di conforto del cerimoniere.

La fretta e la paura del contagio si sono sostituite alla elaborazione del lutto, la

cremazione alla tradizionale sepoltura.

Il lutto nel lutto perché l’ultimo saluto, concepito come prima, non esiste più. Come

non ci è permesso abbracciarci, scambiarci parole di sollievo che prima il rito

consentiva, così ora manca quel sentirsi parte della famiglia e della comunità.

Funerali online, dirette streaming: l’obbligo del distanziamento ci vede ricorrere a

una modalità di funerale che, pur non essendo nuova in termini temporali (penso

soprattutto a Stati Uniti e Gran Bretagna), è però del tutto nuova nel suo imporsi, in

questo momento, come unica modalità di condivisione allargata.

La tua visione in merito?

La mancanza del supporto della comunità, religiosa o laica che sia, destinato a far

superare il senso di afflizione e di angoscia, ora viene sostituito da una diversa

modalità di ciò che il rito sottende, nelle parole e nei gesti, nel tempo e negli spazi a

disposizione: con il coinvolgimento dei bambini, ad esempio, che hanno perduto i

nonni, la cui fragilità è stata sovrastata dalla pandemia.

Il rito che, riconsiderato e riletto, viene “tradotto” dagli strumenti digitali ed

informatici a disposizione, il cui utilizzo nonostante i pregiudizi, sta permettendo di

scoprire impensabili capacità (anche la Chiesa sta dimostrando di utilizzarli):

 

computer, smartphone, tablet e qualsiasi strumento che permetta la creazione di

contatti, anche attraverso la mediazione dello schermo, permettono di diluire nel

tempo l’atipicità del percorso rituale, le cui sfaccettature ne precludono alcune fasi

ma ne permettono altre, anche se diverse.

Ti chiedo anche se pensi che questa forma di funerale possa sostituirsi del tutto,

almeno finché così sarà ritenuto necessario, alle precedenti, oppure se, a beneficio dei

dolenti, sarà utile, quando possibile, “integrarla” con le tradizionali forme di

commiato, implicanti presenza fisica, vicinanza e contatto?

Come ogni evento che comporta trasformazioni epocali, ci sarà un prima e un dopo.

La fase del post emergenza sarà probabilmente caratterizzata da una sorta di

integrazione tra invenzione e tradizione, peraltro già avvertita e messa in atto a

livello rituale, in particolare con la nascita delle aule del commiato e di nuove figure

professionali come quella del cerimoniere funebre.

In questa fase di transito, occorre dare voce e consapevolezza a nuove forme

personali di saluto, per trasformare il dolore e le lacrime in parole e azioni

condivise.

In quali modi, secondo te, la figura del cerimoniere funebre può “ricollocarsi” nel

contesto emergenziale che stiamo vivendo?

L’innegabile inizio di una nuova era, tesa ad affrontare e superare l’emergenza

sanitaria, ha contribuito anche a far nascere forme rituali alternative di commiato

che intendono, nella loro essenzialità, rendere il dolore più sopportabile. Tra queste,

la figura del cerimoniere che, per la Casa funeraria o per l’impresa funebre, diviene

figura di fiducia per i dolenti sia nell’organizzare un momento commemorativo

online sia nel raccogliere le informazioni necessarie per riuscire a dare un attimo di

sollievo, personalizzando l’ultimo saluto, con il racconto ed il ricordo di momenti di

vita del defunto.

La sua presenza diviene ancora più significativa in alcune fasi cruciali del percorso

rituale, come nel rito di consegna delle ceneri, la cui gestione, a causa della

situazione dei crematori, congestionati fino a pochi giorni fa, rendeva impossibile

garantirne con certezza i tempi di affidamento.

Penso alle fosse comuni di Hart Island, negli USA. Ti chiedo di immaginare, come

studiosa, cerimoniere e scrittrice, un rito pubblico che possa onorare la loro memoria.

Ho predisposto, al riguardo, alcuni schemi rituali per cercare di sostenersi nella

dimensione commemorativa, vivendo un momento collettivo, che possono ben

adattarsi anche ad Hart Island.

A pochi giorni dalla parziale riapertura alle frequentazioni ed ai contatti, sono state

attivate diverse tipologie di servizi di supporto al lutto per integrare le carenze della

vicinanza e della presenza fisica.

 

Le persone che sono morte in questo terribile periodo fanno parte di un dramma che

accomuna tutti e che, d’altro canto, fa sentire la forza del vivere, proprio quando la

vita termina e conferisce nuovo valore al senso della comunità e dell’appartenenza

sociale, creando nuovi modi per stare insieme e condividere i sentimenti.

La poesia, la musica, gli oggetti-simbolo sono sicuramente elementi significativi che

possono integrarsi all’energia ed alla vitalità della straordinarietà della

commemorazione pubblica.

Maria Angela Gelati, tanatologa e formatrice nelle materie collegate alla morte, al

lutto ed alla Death education. Ideatrice e curatrice, insieme a Marco Pipitone, della

prima Rassegna di Cultura in Death Education Il Rumore del

Lutto (www.ilrumoredellutto.com), è giornalista e blogger. Nel 2016 ha co-fondato

l’Associazione Segnali di Vita e il Gruppo Nazionale di Lavoro “Stanza del Silenzio

e dei Culti”. 

Come docente collabora con molte realtà tra le quali il Master Death Studies & the

End of Life (Dipartimento FISPPA) dell’Università degli Studi di Padova (diretto

dalla Prof.ssa Ines Testoni).

Autrice di numerosi articoli e saggi inseriti in miscellanee, ha pubblicato le favole di

Death Education Il lecca-lecca di cristallo (Terra marique, 2018) e L’albero della

vita (Mursia, 2015). Ha curato i libri Ritualità del silenzio. Guida per il cerimoniere

funebre (Nuovadimensione, 2018) e Ci sono cose che (Diritto d’autore, 2012).

Il suo impegno umano e scientifico contribuisce al miglioramento di una corretta

cultura della vita che ha in sé la morte.

 

Laura Liberale, tanatologa e indologa, è laureata in Filosofia (Università degli Studi

di Torino), è dottore di Ricerca in Studi Indologici (Università La Sapienza di Roma),

docente di scrittura al Master in Death Studies & the End of Life (Università degli

Studi di Padova). Da diversi anni tiene corsi e seminari di scrittura creativa e di

Cultura e Filosofia dell'India. Ha ottenuto riconoscimenti in svariati premi di poesia e

narrativa. È docente in corsi di formazione per infermieri nell’ambito delle medical

humanities. Ha pubblicato i romanzi Tanatoparty (Meridiano Zero, 2009),

Madreferro (Perdisa Pop, 2012), Planctus (Meridiano Zero, 2014); le raccolte

poetiche Sari – poesie per la figlia (d’If, 2009), Ballabile terreo (d’If, 2011), La

disponibilità della nostra carne (Oèdipus); i saggi indologici I mille nomi di Gaṅgā

(Edizioni dell’Orso, 2003), I Devīnāmastotra hindū – Gli inni purāṇici dei nomi della

Dea (Edizioni dell’Orso, 2007), I nomi di Śiva (Cleup, 2018). È presente tra gli autori

di Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012).

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Andrea Fantozzi 17/09/2020

La morte si fa social
«Facebook, Instagram, WhatsApp sono il più grande cimitero del mondo. È tempo di ripensare filosoficamente la morte nell’epoca dell’intelligenza artificiale, di Black Mirror e della realtà virtuale.»

La morte non esiste più. Allo stesso tempo, però, viviamo costantemente circondati dai morti. Relegata lontano dalla nostra quotidianità, medicalizzata, espunta dalle nostre vite, l’esperienza del morire vive oggi una situazione paradossale, quando le immagini e le parole dei cari estinti tornano e irrompono all’improvviso dagli schermi dei nostri telefoni. Moriamo, ma continuiamo a esistere nella presenza ineliminabile della nostra passata vita online.
Social network, chat, siti web costituiscono insieme, ad oggi, il più grande cimitero del mondo. Il territorio esplorato dalla fantascienza, dalla fiction e, recentemente, da una delle serie più perturbanti che mette al centro della sua riflessione il rapporto tra uomo e tecnologia, Black Mirror, sembra superato dalle nuove intelligenze artificiali. Sono già disponibili bot con cui dialogare e capaci di interpretare i nostri stati d’animo per poi sostituirsi a noi quando saremo trapassati, e continuare a parlare con i nostri cari; il profilo Facebook che consultiamo compulsivamente più volte al giorno, quando mancheremo, diventerà una vera e propria lapide virtuale, e i nostri amici potranno continuare a farci gli auguri ogni anno nell’aldilà.
E ancora, il web è diventata la più grande piazza pubblica per celebrare il ricordo o condividere anche l’esperienza privata del lutto. Insieme piangiamo i nostri cari, insieme ricordiamo i nostri beniamini. Insieme, in un futuro prossimo, vivremo una seconda vita nella realtà virtuale.
Davide Sisto, giovane filosofo che da lungo tempo ha consacrato i suoi studi alla relazione tra morte e cultura digitale, per la prima volta mette insieme un discorso interpretativo che ha al centro il rapporto nuovo della nostra società con la morte indotto dall’avanzamento tecnologico.
La morte si fa social è il migliore esempio di umanesimo capace di confrontarsi con l’era digitale. L’uomo ha sempre pensato la morte. Oggi più che mai, il digitale offre un’opportunità per ripensare la morte in una prospettiva rivoluzionata.

 

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Così Davide Sisto, filosofo e tanatologo, riassume in un’intervista la materia del suo (importante) libro La morte si fa social – Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale: «L’aldilà si sta sempre più spostando all’interno dei nostri computer.

Le persone, senza che neppure lo immaginassero, si sono ritrovate circondate dai morti e da ciò che resta dei morti in qualsiasi luogo del web, sui social media (su Facebook si contano 50 milioni di utenti deceduti), nei blog e ovunque in rete.

Questo fa sì che esistano oggi nuove opportunità di rielaborare tutto quello che abbiamo prodotto in vita, in modo tale da sopravvivere sotto forma di “spettro digitale”.

Questo aspetto problematizza l’elaborazione del lutto, poiché siamo circondati da immagini, post, video delle persone decedute in ogni istante della giornata: basta avere una connessione al web. È traumatico, perché impedisce un vero distacco. Siamo in presenza di rielaborazioni di alter ego virtuali che in qualche modo hanno reso possibile ciò che abbiamo sempre desiderato con le sedute spiritiche: che i morti continuino a comunicare con noi, seppure in maniera artificiale e automatica.»

Grazie alla capacità della tecnologia di rielaborare ciò che siamo stati in vita, anche la memoria e i ricordi si trasformano: questo aspetto, dice Sisto, si svilupperà nel corso degli anni con effetti probabilmente imprevedibili.

Uno dei tratti più importanti dell’esistenza umana che va riesaminato e ricalibrato tenendo conto della tecnologia di cui disponiamo oggi è proprio la morte: qualcosa che si tendeva a rimuovere e invece è tornata di prepotenza nello spazio pubblico.

«Pulizia della morte», eredità digitale, dati che rischiano di scomparire per sempre se non si danno disposizioni chiare sul loro utilizzo; fotografie di morti illustri che rimbalzano moltiplicandosi all’infinito da una pagina web all’altra, piattaforme interattive in cui familiari, amici e fans ricordano il defunto con aneddoti, poesie, immagini, lettere; archivi di memorie pubbliche e private in cui passato e presente si confondono.

Questa continuazione digitale della vita, spiega Sisto, non è tutta positiva ma neppure tutta negativa. L’«interazione postuma» può anche costituire un aiuto nell’elaborazione del lutto: «esporre su Facebook il proprio dolore ottenendo una sostanziosa risposta può essere una delle molteplici strade da seguire» per ritrovare una condizione di vita salubre dopo un lutto.

Un capitolo a sé è costituito dai suicidi online, sempre più diffusi da quando esiste la possibilità di condividere immagini in diretta. Lo hanno fatto in molti, soprattutto adolescenti, i cui filmati si sono diffusi a macchia d’olio prima di essere rimossi (lasciando comunque tracce reperibili).

«Quando una persona muore, i suoi amici e contatti aumentano del 30% il numero di interazioni tra loro all’interno di Facebook. Solo dopo diversi mesi, a volte addirittura anni, le interazioni tornano a stabilizzarsi a un valore pari a quello precedente il lutto. Pare che i livelli di interazione si mantengano assai elevati nelle reti che includono soprattutto persone di età compresa tra i 18 e i 24 anni, e che le reti in cui ha avuto luogo un suicidio mostrino un livello minore di capacità di recupero del lutto.»

D’altra parte, «la morte di una persona celebre può diventare l’occasione, sui social, per aprire discussioni dotate di un’oggettiva utilità. Il suicidio di Chris Cornell, per esempio, ha generato numerose riflessioni sul tema della depressione, di cui il cantante soffriva, e sulle strategie da seguire per fare rete – offline – in vista della prevenzione dei suicidi.»

Sisto analizza con profondità e lucidità tutte le facce, positive, negative e/o imprevedibili, della commistione tra realtà concreta e virtuale alla fine dell’umana esistenza terrena.

«L’autorità che la morte esercita nei confronti della vita, rendendola tale, è racchiusa nel potere della memoria, dalla quale prendiamo la forza per arricchire il nostro sentire, per crescere, per potenziare il nostro modo di pensare. Per amplificare, soprattutto, dentro di noi l’eco della vita di chi non c’è più e per preparare la nostra eco nella vita delle altre persone, quando saremo noi a non esserci più. Oggi, la cultura digitale offre alla memoria, quindi al rivolo spirituale tra l’aldiquà e l’aldilà, la possibilità di dare una voce tangibile e personale a quell’eco. Il corpo digitale può diventare il deposito di legami intimi, la voce consolante in grado di rivestire il ricordo di quegli abiti che hanno reso unico, nel bene e nel male, il rapporto con ciascuna delle persone amate.»

Immortalità digitale, suggestioni fantascientifiche che rappresentano, più che prefigurare, una realtà già ampiamente in atto, rapporto tra morte e social network, eredità digitale, funerali tecnologici in streaming, nascita di nuove figure professionali come il digital death manager: è tutto in questo libro stranamente (visto il tema) appassionante. Ma in fin dei conti non è strano che lo sia: è un argomento che riguarda tutti, senza eccezioni, ed è troppo importante per occuparsene domani.

 

Davide Sisto, La morte si fa social – immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale, Bollati Boringhieri 2018

 

 
 
 
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