La Chiesa può negare un funerale?
Nicolas Tiburzi 19/08/2021 0
Se il defunto è un criminale mai pentito, può ricevere la benedizione di un sacerdote ed essere seppellito in un Campo Santo?
Chiedersi se la Chiesa può negare un funerale e quando può farlo obbliga a dare un’occhiata al Diritto canonico, ma anche all’essenza stessa della Chiesa cattolica. E pone anche qualche problema, per così dire, etico che viene spesso valutato di volta in volta a seconda del soggetto, delle circostanze e dal sacerdote.
La morte di Totò Riina, come prima quella di Bernardo Provenzano e di altri criminali che non si sono mai pentiti delle atrocità che hanno commesso, ha portato di nuovo alla luce la posizione della Chiesa sull’opportunità o meno di fare un funerale (pubblico o privato che sia) ad un delinquente di tale portata.
Funerale di un criminale: cosa dice il Diritto canonico
In base al Diritto canonico [1], la Chiesa cattolica può negare un funerale se prima della morte il soggetto non ha dato alcun segno di pentimento dei suoi errori e se:
· è notoriamente apostata, eretico o scismatico (cioè se è andato di proposito contro gli insegnamenti della Chiesa e della fede cattolica, anche se in apparenza ha osservato alcuni riti come quello del matrimonio o del battesimo dei figli);
· ha scelto la cremazione del proprio corpo per ragioni contrarie alla fede cristiana;
· è stato un peccatore manifesto.
Lo stesso articolo, però, invita a sentire il parere dell’ordinario del luogo (il parroco, il vescovo) e di sottomettersi al suo giudizio personale. Significa che ci potrebbe essere un sacerdote che, per suoi motivi di pensiero ed in coscienza, potrebbe decidere di negare o di accettare di celebrare il funerale di una certa persona o di benedire la sua salma.
Il giudizio del sacerdote: quando sì e quando no
Spesso la rabbia di fronte ai crimini commessi da una persona può portare a giudizi assolutamente comprensibili ma, di fronte alla sostanza della legge (in questo caso della legge ecclesiastica), non sempre corretti. Succede anche con le questioni che riguardano tematiche più profane: una sentenza che applica la legge alla lettera o l’interpretazione di un giudice può essere più o meno condivisa, ma quella è e quella bisogna accettare.
Nell’argomento che ci occupa, un sacerdote o un singolo vescovo hanno il titolo di decidere quando la Chiesa può negare un funerale? Tecnicamente sì, perché hanno ricevuto un mandato per rappresentare la legge divina, così come un magistrato lo ha ricevuto per rappresentare la «legge umana» (per chiamarla così).
Sta dunque al giudizio del prete o del prelato stabilire se il passato del defunto e le circostanze sociali permettono di poter celebrare un funerale pubblico o meno.
Ma se la famiglia chiedesse il funerale privato, lontano da tutti per non creare scandalo pubblico, il sacerdote come si deve comportare?
Qui si entra in un terreno molto delicato. Vangelo alla mano, la fede cristiana si basa sul perdono e sulla redenzione. La benedizione di una salma ed il rito funebre comportano, però, un perdono che viene concesso soltanto a chi lo chiede. Se uno non si pente di quello che ha fatto, di che cosa lo si deve perdonare? Se il defunto non lo ha fatto, nemmeno la famiglia può chiederlo al suo posto. Si può stare vicino ai parenti, li si può consolare se non hanno condiviso la vita del loro familiare. Tutto qui, però. Per la Chiesa, il sacramento della confessione è vincolato al pentimento. Di conseguenza, il sacerdote può rifiutarsi di benedire quella salma e, quindi, di celebrare un funerale anche alla presenza di pochi intimi.
Naturalmente, tutto è soggettivo. In teoria, l’articolo del Diritto canonico che abbiamo citato riguarda tutti i «peccatori manifesti», cioè anche i divorziati («non osi separare l’uomo ciò che Dio unisce», si sentono dire gli sposi), i ladri, chi crea pubblico scandalo. Ma mettere tutti sullo stesso piano sarebbe ridicolo: non si può paragonare un criminale come Riina ad un divorziato onesto o a un ladro di polli. Per questo, alcuni rappresentanti della Chiesa, fortunatamente verrebbe da dire, valutano di volta in volta il soggetto che hanno davanti. Altrimenti (forse) di funerali non se ne farebbero più.
Un criminale può essere seppellito in cimitero?
Teoricamente, e per i motivi che abbiamo appena spiegato, una persona che ha vissuto fuori dalla fede cattolica e che, manifestamente, ha vissuto facendo del male al prossimo non può essere seppellito in un cimitero se non ha chiesto il perdono di Dio. Il motivo non è semplice (come abbiamo appena visto) ma è chiaro: il cimitero non è un «deposito di salme» ma è un campo santo e benedetto destinato ad ospitare chi ha ricevuto il perdono divino attraverso un ministro della Chiesa cattolica. Quindi, chi non si è mai pentito di quello che ha fatto in vita e, per questo, non ha avuto un funerale cattolico, non può riposare in cimitero.
Qualche anno fa avevano fatto scalpore i funerali in pompa magna di Vittorio Casamonica a Roma. In quell’occasione Famiglia Cristiana aveva intervistato il teologo Silvano Sirboni che si espresse su quelle esequie degne di un principe del Rinascimento.
“Il funerale non santifica la vita di nessuno – affermò Sirboni – mette le mani di ciascuno nelle mani della infinita misericordia di Dio”. A meno che non ci sia un rifiuto in vita da parte del soggetto in questione, tutti hanno diritto ai funerali in quanto battezzati “Magari sono stati infedeli al battesimo, ma la Chiesa prega anche per loro“, continuò.
“Nessun parroco può rifiutare di celebrare un funerale, – continuò il teologo – a meno che non ci siano prove che sia stato rifiutato dal defunto stesso”.
Qualche anno fa anche il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, aveva intimato ai suoi sacerdoti di non celebrare in chiesa i funerali dei boss della camorra.
Conclusioni
La Chiesa non è un’istituzione sociale o umanitaria qualsiasi e che rivolge i propri servizi a chiunque, né tanto meno offre un servizio di onoranze funebri indifferenziato.
La celebrazione delle esequie ecclesiastiche è stabilita dal diritto canonico con riti, simboli e canti ben precisi per cui nessun fedele ha il diritto di modificare il rito liturgico. La Chiesa agisce in foro esterno in quanto non può giudicare le intenzioni del cuore e la responsabilità morale di ciascuno, ma può attenersi ai soli atteggiamenti espressi o dichiarati pubblicamente in vita. La Chiesa, tuttavia, prega per tutti i peccatori, per la loro conversione e ne invoca la misericordia divina.
Fonti:
Famiglia Cristiana
laleggepertutti.it
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Andrea Pastore 13/10/2021
Gli animali hanno un concetto di "morte" e sperimentano il lutto?
Uno dei comportamenti più frequenti e utili per studiare il concetto di morte nelle varie specie è quello riscontrato in molte specie di primati dove le madri trasportano e curano il corpo senza vita dei loro infanti.
Questo comportamento risulta ambivalente: i comportamenti di queste madri sono ascrivibili ad un "lutto materno" oppure al contrario mostrano come le stesse non abbiano ben compreso l'irreversibilità della perdita di funzionalità dei loro infanti e dunque la loro morte?
In un recente studio alcuni ricercatori hanno esaminato una vasta mole di dati presenti in letteratura su circa 409 eventi di ICC (infant corpse carried by mothers) rappresentati trasversalmente in 50 specie di primati cercando di comprendere quali variabili influenzino questo comportamento e se lo steso possa essere effettivamente usato per stabilire la comprensione del concetto di morte in una data specie.
I risultati hanno mostrato come nelle specie in cui si è osservato tale comportamento, la probabilità di trasportare il cadavere era più bassa se le cause della morte dell'infante erano di origine traumatica, come ad esempio nel caso dell'infanticidio, rispetto al caso in cui fossero di origine naturale (malattie). Anche l'età della madre influiva su questa probabilità, infatti le giovani madre mostravano una probabilità maggiore nell'eseguire questo comportamento rispetto a madri più anziane.
Inoltre, al momento della morte tanto più era bassa l'età dell'infante tanto più si allungava la durata del trasporto del suo cadavere da parte della madre. Questo suggerisce come alla base di questa differenza ci sia la forte motivazione emotiva legata al legame madre-infante che risulta essere molto più forte nelle primissime fasi dell'ontogenesi degli infanti.
Questi risultati presi insieme ci indicano come nelle varie specie di primati in cui si è riscontrato questo comportamento sia la presenza e il grado del legame emotivo madre-infante, sia le diverse cause di morte dell'infante ne condizionano la sua frequenza e la sua durata.
Gli autori suggeriscono come in presenza di molti più segnali indicanti la "perdita di funzionalità" e "l'irreversibilità" a seguito della morte dell'infante come nel caso delle morti di origine traumatica e con l'avanzare dell'età delle madri, queste riescano ad imparare più facilmente che l'infante sia morto e di conseguenza evitano di trasportarlo; viceversa la motivazione a continuare a prendersi cura del cadavere sarebbe più forte nel caso in cui le cause della morte siano "ambigue" e l'età dell'infante sia bassa, data la presenza di una forte motivazione materna ad accudire l'infante nelle primissime fasi della sua vita.
Non si può comunque escludere che la probabilità di trasportare il cadavere dell'infante sia più bassa nel caso delle morti di origine traumatica a causa della presenza di un contesto socio-ambientale inibitorio in tal senso; le madri potrebbero non trasportare e abbandonare il corpo dei loro infanti a causa dello stress e della paura condizionata dagli eventi che hanno ad esempio portato all'infanticidio dei loro piccoli.
Insieme, questo gradiente legato al trasporto del cadavere degli infanti lascia ipotizzare come la presenza di un concetto minimo di morte possa essere presente nelle specie di primati in cui è stato osservato tale comportamento e come tale concetto affondi le radici all'interno di un'esperienza comparabile al lutto vissuta dalle madri in funzione del grado del legame emotivo madre-infante e delle cause della morte di quest'ultimo.
Gli umani sono stati a lungo considerati gli unici in grado di comprendere il concetto di morte ed eseguire alcuni riti funebri, come il lavaggio del corpo del defunto.
Questo atto è stato eseguito per millenni, in tutte le sue forme, sulla terra, sott'acqua, nell'aria, di notte o in pieno giorno.
Non si considera che un animale possa rattristarsi. Eppure, può comportarsi in modo molto simile a quello di un essere umano, specialmente tra le grandi scimmie, di fronte alla morte. Si può parlare di lutto o empatia, anche se queste caratteristiche sono considerate appannaggio dell’antropomorfismo.
Si può presumere che i compagni della vittima mostrino il dolore per una grande perdita in termini sociali, ma è impossibile valutare le emozioni causate da questa perdita. Le espressioni più sottili di emozione, le uniche in grado di rivelarci informazioni sull'impatto della perdita subita, sfuggono a tutte le osservazioni, neutralizzate da sentimenti più immediati come paura, rabbia, tristezza o persino gioia alcuni casi. Ma i congeneri della vittima raramente sono i testimoni immediati della morte, non trovandosi vicino al corpo.
L'espressione di empatia, lutto e dolore, così come altre manifestazioni generalmente associate alla perdita di un altro essere umano, sono di difficile accesso quando si è nel regno animale, poiché ci si può basare solo su comportamenti osservabili che rivelano informazioni parziali e limitate sulle emozioni vissute dall'animale.
Per essere in grado di condurre ricerche sulle reazioni degli animali alla morte, dobbiamo pensare ai casi in cui colpisce una determinata popolazione dal vivo, permettendo così un contatto immediato con il cadavere. Raramente conosciamo gli eventi che precedono la morte, nonché le relazioni sociali che uniscono la vittima ai sopravvissuti, che potrebbero fare luce sui sentimenti degli altri di fronte alla morte. Nei primati e nelle grandi scimmie possiamo distinguere diverse forme di morte: morte accidentale, morte di giovani o anche morte per malattia.
Che consapevolezza hanno gli animali della morte?
Se gli animali riescono a capire fino a un certo punto il passaggio dalla "vita" a quella "senza vita" di uno di loro, che dire della propria morte? Ne sono consapevoli?
I gorilla adottano diversi comportamenti simili a quelli osservati nell'uomo, inclusa una fase di lutto.
Per i ricercatori, la comprensione che gli animali hanno del passaggio dalla vita alla morte è spesso sottovalutata.
Si ritiene che molti fenomeni, come la capacità di ragionare, di usare strumenti o la consapevolezza della morte, differenzino l'uomo da altre specie. Ma la scienza ha dimostrato che questo confine è lungi dall'essere definito come si potrebbe pensare. Il modo in cui i gorilla rispondono all'agonia o alla morte di un compagno indica che la loro consapevolezza della morte è molto più sviluppata di quanto si possa immaginare.
Andrea Fantozzi 17/09/2020
La morte si fa social
La morte non esiste più. Allo stesso tempo, però, viviamo costantemente circondati dai morti. Relegata lontano dalla nostra quotidianità, medicalizzata, espunta dalle nostre vite, l’esperienza del morire vive oggi una situazione paradossale, quando le immagini e le parole dei cari estinti tornano e irrompono all’improvviso dagli schermi dei nostri telefoni. Moriamo, ma continuiamo a esistere nella presenza ineliminabile della nostra passata vita online.
Social network, chat, siti web costituiscono insieme, ad oggi, il più grande cimitero del mondo. Il territorio esplorato dalla fantascienza, dalla fiction e, recentemente, da una delle serie più perturbanti che mette al centro della sua riflessione il rapporto tra uomo e tecnologia, Black Mirror, sembra superato dalle nuove intelligenze artificiali. Sono già disponibili bot con cui dialogare e capaci di interpretare i nostri stati d’animo per poi sostituirsi a noi quando saremo trapassati, e continuare a parlare con i nostri cari; il profilo Facebook che consultiamo compulsivamente più volte al giorno, quando mancheremo, diventerà una vera e propria lapide virtuale, e i nostri amici potranno continuare a farci gli auguri ogni anno nell’aldilà.
E ancora, il web è diventata la più grande piazza pubblica per celebrare il ricordo o condividere anche l’esperienza privata del lutto. Insieme piangiamo i nostri cari, insieme ricordiamo i nostri beniamini. Insieme, in un futuro prossimo, vivremo una seconda vita nella realtà virtuale.
Davide Sisto, giovane filosofo che da lungo tempo ha consacrato i suoi studi alla relazione tra morte e cultura digitale, per la prima volta mette insieme un discorso interpretativo che ha al centro il rapporto nuovo della nostra società con la morte indotto dall’avanzamento tecnologico.
La morte si fa social è il migliore esempio di umanesimo capace di confrontarsi con l’era digitale. L’uomo ha sempre pensato la morte. Oggi più che mai, il digitale offre un’opportunità per ripensare la morte in una prospettiva rivoluzionata.
§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§
Così Davide Sisto, filosofo e tanatologo, riassume in un’intervista la materia del suo (importante) libro La morte si fa social – Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale: «L’aldilà si sta sempre più spostando all’interno dei nostri computer.
Le persone, senza che neppure lo immaginassero, si sono ritrovate circondate dai morti e da ciò che resta dei morti in qualsiasi luogo del web, sui social media (su Facebook si contano 50 milioni di utenti deceduti), nei blog e ovunque in rete.
Questo fa sì che esistano oggi nuove opportunità di rielaborare tutto quello che abbiamo prodotto in vita, in modo tale da sopravvivere sotto forma di “spettro digitale”.
Questo aspetto problematizza l’elaborazione del lutto, poiché siamo circondati da immagini, post, video delle persone decedute in ogni istante della giornata: basta avere una connessione al web. È traumatico, perché impedisce un vero distacco. Siamo in presenza di rielaborazioni di alter ego virtuali che in qualche modo hanno reso possibile ciò che abbiamo sempre desiderato con le sedute spiritiche: che i morti continuino a comunicare con noi, seppure in maniera artificiale e automatica.»
Grazie alla capacità della tecnologia di rielaborare ciò che siamo stati in vita, anche la memoria e i ricordi si trasformano: questo aspetto, dice Sisto, si svilupperà nel corso degli anni con effetti probabilmente imprevedibili.
Uno dei tratti più importanti dell’esistenza umana che va riesaminato e ricalibrato tenendo conto della tecnologia di cui disponiamo oggi è proprio la morte: qualcosa che si tendeva a rimuovere e invece è tornata di prepotenza nello spazio pubblico.
«Pulizia della morte», eredità digitale, dati che rischiano di scomparire per sempre se non si danno disposizioni chiare sul loro utilizzo; fotografie di morti illustri che rimbalzano moltiplicandosi all’infinito da una pagina web all’altra, piattaforme interattive in cui familiari, amici e fans ricordano il defunto con aneddoti, poesie, immagini, lettere; archivi di memorie pubbliche e private in cui passato e presente si confondono.
Questa continuazione digitale della vita, spiega Sisto, non è tutta positiva ma neppure tutta negativa. L’«interazione postuma» può anche costituire un aiuto nell’elaborazione del lutto: «esporre su Facebook il proprio dolore ottenendo una sostanziosa risposta può essere una delle molteplici strade da seguire» per ritrovare una condizione di vita salubre dopo un lutto.
Un capitolo a sé è costituito dai suicidi online, sempre più diffusi da quando esiste la possibilità di condividere immagini in diretta. Lo hanno fatto in molti, soprattutto adolescenti, i cui filmati si sono diffusi a macchia d’olio prima di essere rimossi (lasciando comunque tracce reperibili).
«Quando una persona muore, i suoi amici e contatti aumentano del 30% il numero di interazioni tra loro all’interno di Facebook. Solo dopo diversi mesi, a volte addirittura anni, le interazioni tornano a stabilizzarsi a un valore pari a quello precedente il lutto. Pare che i livelli di interazione si mantengano assai elevati nelle reti che includono soprattutto persone di età compresa tra i 18 e i 24 anni, e che le reti in cui ha avuto luogo un suicidio mostrino un livello minore di capacità di recupero del lutto.»
D’altra parte, «la morte di una persona celebre può diventare l’occasione, sui social, per aprire discussioni dotate di un’oggettiva utilità. Il suicidio di Chris Cornell, per esempio, ha generato numerose riflessioni sul tema della depressione, di cui il cantante soffriva, e sulle strategie da seguire per fare rete – offline – in vista della prevenzione dei suicidi.»
Sisto analizza con profondità e lucidità tutte le facce, positive, negative e/o imprevedibili, della commistione tra realtà concreta e virtuale alla fine dell’umana esistenza terrena.
«L’autorità che la morte esercita nei confronti della vita, rendendola tale, è racchiusa nel potere della memoria, dalla quale prendiamo la forza per arricchire il nostro sentire, per crescere, per potenziare il nostro modo di pensare. Per amplificare, soprattutto, dentro di noi l’eco della vita di chi non c’è più e per preparare la nostra eco nella vita delle altre persone, quando saremo noi a non esserci più. Oggi, la cultura digitale offre alla memoria, quindi al rivolo spirituale tra l’aldiquà e l’aldilà, la possibilità di dare una voce tangibile e personale a quell’eco. Il corpo digitale può diventare il deposito di legami intimi, la voce consolante in grado di rivestire il ricordo di quegli abiti che hanno reso unico, nel bene e nel male, il rapporto con ciascuna delle persone amate.»
Immortalità digitale, suggestioni fantascientifiche che rappresentano, più che prefigurare, una realtà già ampiamente in atto, rapporto tra morte e social network, eredità digitale, funerali tecnologici in streaming, nascita di nuove figure professionali come il digital death manager: è tutto in questo libro stranamente (visto il tema) appassionante. Ma in fin dei conti non è strano che lo sia: è un argomento che riguarda tutti, senza eccezioni, ed è troppo importante per occuparsene domani.
Davide Sisto, La morte si fa social – immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale, Bollati Boringhieri 2018
Laura Liberale 11/04/2021
Un Percorso di Death Education
Laura Liberale intervista Elena Alfonsi
Perché ti occupi di raccontare la morte attraverso l’analisi delle opere d’arte?
Le opere d’Arte sono una straordinaria opportunità per fornire concretamente all’individuo la
dimostrazione di come le dimensioni individuali, relazionali, sociali entrino inevitabilmente in
gioco nei rapporti tra morte, cultura e storia; situazioni sociali e biografie individuali; condizioni di
malattia e vita quotidiana; perdite ed elaborazioni nelle diverse età della vita; interiorità e codici
comportamentali condivisi.
Se riteniamo che la cultura del mondo debba essere tutelata, ossia difesa e salvaguardata, poiché
fondante per la vita degli uomini, dovremmo ritenere, a maggior ragione, che anche la vita degli
uomini debba poter essere tutelata quindi difesa e salvaguardata ma anche: assistita, curata, protetta.
A questo proposito il percorso di DeAd che propongo, e che si intitola La Morte nell’Arte pone
attenzione, con l’ausilio delle immagini di opere d’Arte, alla sofferenza, al dolore e alla perdita
cercando di riconoscere nelle creazioni artistiche dell’uomo i profili dell’angoscia causata
dall’incontro con la morte e osservare come gli artisti abbiano gestito il suo racconto. L’insieme
delle opere d’Arte prese in considerazione daranno la possibilità di instaurare un confronto culturale
ampio in grado di promuovere l’integrazione della morte nella vita.
L’Arte permette di continuare a sensibilizzare la società sulla fondamentale importanza di divulgare
il lavoro dei professionisti che si occupano della cura dell’angoscia per la morte. Questo con
l’educazione, che è formazione, per portare a considerare le esperienze di perdita (intesa nelle sue
varie accezioni) e di lutto, come parti essenziali del senso della vita.
La paura di morire, di un corpo che si trasforma e della sua successiva decomposizione sono
ossessioni da emarginare. Per questo è indispensabile colmare la distanza che separa il pensiero dei
vivi dal loro giungere comunque inesorabilmente a un termine conducendo la società a raggiungere
un conveniente livello intellettuale e morale per divenire: “amica della morte” - “alfabetizzata dalla
morte”.
Guidare alla presa di coscienza dell’ultimo avvenimento della vita umana, reintegrando il pensiero
della morte nella vita collettiva, è un terreno educativo da presidiare in una prospettiva didattica
costante, non emergenziale né riparatoria ossia che tenda ad allontanarne o peggio sradicarne il
ricordo. Dobbiamo invece favorire il riavvicinamento dell’uomo al pensiero della morte. L’obiettivo
è rendere cosciente la comunità della fondamentale importanza di un percorso di consapevolezza
dell’esistenza di un fine vita nell’inscindibile rapporto con la vita. Attraverso la cultura potremo
sempre riflettere sulla cessazione delle funzioni vitali nell’uomo per rendere gli individui più maturi
e di supporto nei riti di passaggio per la pace dei vivi.
Le immagini di opere d’arte create da artisti del passato o contemporanei, stimolano a una
osservazione in grado di scomporre segno e colore, offrendo l'opportunità di un nuovo sguardo
dell’opera che ha in sé la morte quale fondamentale potenza creativa tutt'altro che scevra da un
assillante pensiero.
Quali sono le opere d’arte che prendi in considerazione?
Sin dall’antichità il compianto, il rito funebre e la sepoltura sono stati rappresentati da una
complessa gestualità e da una serie di credenze e superstizioni. Si trattava di riti di passaggio che
accompagnavano il corpo del defunto assicurando il distacco della sua anima e l’impossibilità di
ritornare nelle spoglie di un fantasma. La Chiesa tentò di attribuire a queste ritualità un fondamento
di fede, ma risultò molto difficile anche soltanto accostare il rito antico a valori cristiani. Benché
l’impresa fu irta di ostacoli il cordoglio collettivo, il funerale e la sepoltura, nel corso dei secoli
acquisirono un valore distinto di cerimonie di un “esodo” dell’anima dal corpo senza più vita alla
vita eterna, dannata o beata che fosse, e attribuirono ai vivi il ruolo di intermediario affinché i morti
giungessero più agevolmente in Paradiso. Era quello il momento del commiato in cui la ritualità
formulava la richiesta di riposo e luce eterna che contraddistinguono la pace della vita oltre la morte
terrena.
La persistenza delle tradizioni antiche, l’avvicinamento di motivi cristiani e il dolore umano
espresso di fronte al corpo morto hanno caratterizzato il rito funebre, già codificato da liturgia e
legislazione, estremamente complesso anche da raffigurare. Nell’ambito della rappresentazione
passionale figurativa molti studiosi, con non poche difficoltà, si sono impegnati a ricostruire la
ritualità che ha permesso di osservare il modo etimologicamente originario di intendere la passione.
Partendo da questo specifico significato l’analisi delle opere d’arte, del passato o contemporanee
che contengano elementi di relazione con la morte del corpo o rappresentino la morte di un corpo
come tipi diversi di configurazione, ritengo possa essere fondamentale per la narrazione della morte
in contrapposizione alla paura di morire.
Quali casi ritieni possano essere il fondamento dello studio sulla rappresentazione della morte?
La morte di Cristo o il martirio di San Sebastiano sono i due casi che ne danno una versione
particolare, ossia la morte come atto del morire poiché è coinvolta una tematica passionale che è
l’atto puntuale del morire. È questo il motivo per cui è inevitabile il coinvolgimento di
un’aspettualità della sofferenza: incoatività dell’agonia, puntualità dell’atto di morte, duratività
dell’essere morti. Da qui e dalla struttura che ne deriva è possibile vedere come la natura aspettuale
del morire in alcuni periodi storici venga caricata di contenuti ideologici che per essere espressi
nell’arte dovranno presentare figure particolari che siano in grado di rappresentare tale aspettualità.
Tuttavia parlare della morte come figura rappresentata è parlare della fisionomia della morte come
accadimento fisico che coinvolge l’essere umano, ma anche dei suoi simboli e dei suoi emblemi.
Tra gli artisti contemporanei che hai inserito nella tua ricerca quale potresti segnalarci in questa
occasione di dialogo?
Sono felice che tu mi abbia fatto questa domanda Laura perché mi permette di citare un artista
italiano di fama internazionale che ammiro: Agostino Arrivabene. Ritengo che tra le opere ancora
nel suo studio, una sia l’emblema di questa estenuante pandemia. È un lavoro del 2016 intitolato
Martyrii Corona che fu esposto in una ricca personale alla Casa del Mantegna a Mantova proprio in
quell’anno. Ricordo con chiarezza che quando la vidi mi si palesò immediatamente non solo una
precisa immagine di morte, ma anche la sensazione di percepirne la temperatura e l’odore. Non il
corpo ma l’interpretazione perfettamente rifinita, nello stile di un’artista di pittura meditativa colta,
di uno dei simboli della passione di Cristo: la corona del martirio. In uno spazio in cui la luce
sembra persino riluttante ad assumere il ruolo che le compete, una corona di capillari sanguiferi
posa in bilico di fronte a chi osserva su una spessa lastra marmorea dipinta a tutta lunghezza.
Un’architettura dal personale grafismo a punta di pennello, una fitta rete di sottilissimi vasi che
sembrano agitarsi come le ciocche sconvolte della “capellatura” medusea. Adagiata con sublime
delicatezza Martyrii Corona travalica lo stato di incertezza e precarietà dell’uomo, citando una
canestra del passato che riferiva della transitorietà tra la vita e la morte. L’ariosa consistenza
plastica posta al centro della pietra dirama come da una spina, verso l’alto e verso il basso, mentre il
calore che l’abbandona esala e si eleva con sottili stalagmiti cuneiformi. Essa tenta la fusione tra i
due mondi in uno schema derivato in pittura dai fiamminghi, visto in Bellini, in Mantegna, che
contrappone al gelido piano la danza di sangue arborescente, non ancora coagulato, percorso dalla
luce. Vibranti di quel colore, che forse più di tutti riporta alla realtà della morte, gli elementi
organici appaiono fisicamente tangibili inondati dalla delicata luminosità che non assorbe il dramma
ma al contrario lo amplifica e lo mette a nudo fondendolo al freddo e all’angoscia stimolata dalla
rigida pietra. Inevitabile legare il sentimento umano di chi osserva all’evidenza del sapiente studio
del disegno dall’antico, della sua comprensione, dal fatto di saper vedere il vero ed essere in grado
di trasformarlo in un’opera universale mai così attuale e capace di parlare nel tempo. Un dipinto
geniale e di forte intensità perché Martyrii Corona è il pianto dei dolenti che in questo triste
momento della storia dell’uomo sono stati travolti dal dolore per la morte dell’altro. Anche il rigore
della rappresentazione ci pone di fronte ad un crescendo di linee parallele in una prospettiva
bloccata, tagliata ai lati per attribuirle un valore psicologico: ciò che è dettato dal rigore scientifico
presuppone una lettura attenta. La pietra dipinta a marezza fornisce indicazioni precise sulla sua
consistenza e permette di comprendere le capacità dell’arte attraverso le qualità pittoriche di resa
che dimostrino come le opere che possiedono la forza di coinvolgere, debbano necessariamente
vedere unite nell’artista pittura e intelletto. Inevitabile che questa immagine non possa che rimanere
impressa in modo indelebile nella memoria per il rigore composto della tecnica, la precisione
prospettica, la capacità di rappresentare la realtà fatta di minuti particolari, l’invenzione
nell’accostare gli elementi. Una serie di passaggi bilanciati e graduali impongono allo sguardo di
procedere lungo la verticale dell’opera e scivolare sulla materia diversa. Il segmento temporale del
racconto, dal martirio alla gloria raggiunta con il sacrificio della vita, è preghiera di dolore. Ed è
così che l’esaltazione della sofferenza, di quel sangue versato, è passione che rivive nella perdita di
vigore materico in un progressivo levarsi al cielo. Una supplica ricreata sul ribaltamento della
consistenza, da solida a vapore che come fiamma trionfante ci esorta a non perdere la speranza.
In questa rappresentazione della morte vi è uno dei modelli di costruzione pittorica. Daniel Arasse
ha ben dimostrato che la prospettiva di Filippo Brunelleschi presenti un’esigenza di esattezza e di
coerenza della scena della pittura indipendentemente da ciò che vi si rappresenta, per cui attenzione
allo spazio. Leon Battista Alberti invece propone una prospettiva dove esattezza e coerenza sono in
funzione della narrazione, quella da lui definita “istoria”. Eppure, benché senza corpo, quest’opera
riveste un ruolo pedagogico-emozionale e stimola a provare passione poiché il meccanismo di
identificazione che si innesca tra il dipinto e colui che osserva, proprio in questo specifico tempo di
grande sofferenza del mondo, si attiva dalla dichiarata equivalenza di passione come movimento
dell’animo e il movimento creato dalla pittura. Mi pare evidente che questo modello possa essere
inserito nelle sfide alla natura della rappresentazione bidimensionale statica, dove lo spazio coerente
ed esatto è un principio ottico e geometrico. D’altro canto non potremo esimerci dal considerare in
questo luogo di dolore la possibilità di includere anche ciò che non è mai omogeneo alla natura del
piano dell’espressione della pittura, ossia la linearità della dimensione temporale del movimento,
cioè dell’azione.
Grava sull’uomo la drammatica esperienza di troppe improvvise sottrazioni e in questa tela il
messaggio è chiaro quand’anche raggiunga lo sguardo più vano. Forte è l’opera che seduce e nutre
il pensiero con immagini che raccontino del tempo che porta il morire di chi amiamo e di noi.
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Elena Alfonsi
Laureata in Storia della Critica d'Arte all'Università degli Studi di Padova scrive dal 1992 come Critica d'Arte.
Dal 2018 è Presidente dell'Associazione Culturale Aretè. Dal 1992 al 1997 a Milano è Consulente Scientifica per le acquisizioni della collezione privata appartenuta al Dott. Giorgio Cappricci.
Dal 1992 al 1999 è a Venezia come Consulente Scientifica di una Collezione Privata. Abita a Mantova ed è Critica d'Arte indipendente diplomata in Tanatologia Culturale al Master Death Studies e the End of Life - Dipartimento FISPPA - Università degli Studi di Padova con cui collabora dal 2018. Si occupa di arte, cultura e Death Education attraverso la pittura, la scultura, la fotografia, la letteratura, la poesia. E’ scrittrice, ideatrice di progetti didattico–culturali, di progetti di responsabilità etica a sostegno della cultura, di laboratori didattico formativi per un corretto approccio all’arte. Dal 2017 organizza a Mantova, nella prestigiosa sede della Casa del Mantegna una Rassegna di Cultura intitolata Alla fine dei conti. Riflessioni sulla vita e sulla morte.
Dal 2018 promuove il Progetto “La morte nell'Arte. La cultura veicolo di sviluppo”. Dall’A.A. 2019/2020 è Docente Esterna di Storia dell'Arte e Storia della Critica d'Arte alla Accademia Internazionale dell'Intaglio a Bulino e Belle Arti di Bruno Cerboni Bajardi a Urbino. Dal 2019 collabora con l'Istituto Mantovano di Storia Contemporanea di Mantova.Dal 2022 come Socia AGC sarà l'organizzatrice di un'esposizione itinerante, la prima in Italia, dedicata al Gioiello Devozionale Contemporaneo in collaborazione con AGC Associazione Gioiello Contemporaneo, che inizierà da Padova nell'Oratorio di San Rocco per poi proseguire in altre sedi.