La morte si fa social
Andrea Fantozzi 17/09/2020 0
La morte non esiste più. Allo stesso tempo, però, viviamo costantemente circondati dai morti. Relegata lontano dalla nostra quotidianità, medicalizzata, espunta dalle nostre vite, l’esperienza del morire vive oggi una situazione paradossale, quando le immagini e le parole dei cari estinti tornano e irrompono all’improvviso dagli schermi dei nostri telefoni. Moriamo, ma continuiamo a esistere nella presenza ineliminabile della nostra passata vita online.
Social network, chat, siti web costituiscono insieme, ad oggi, il più grande cimitero del mondo. Il territorio esplorato dalla fantascienza, dalla fiction e, recentemente, da una delle serie più perturbanti che mette al centro della sua riflessione il rapporto tra uomo e tecnologia, Black Mirror, sembra superato dalle nuove intelligenze artificiali. Sono già disponibili bot con cui dialogare e capaci di interpretare i nostri stati d’animo per poi sostituirsi a noi quando saremo trapassati, e continuare a parlare con i nostri cari; il profilo Facebook che consultiamo compulsivamente più volte al giorno, quando mancheremo, diventerà una vera e propria lapide virtuale, e i nostri amici potranno continuare a farci gli auguri ogni anno nell’aldilà.
E ancora, il web è diventata la più grande piazza pubblica per celebrare il ricordo o condividere anche l’esperienza privata del lutto. Insieme piangiamo i nostri cari, insieme ricordiamo i nostri beniamini. Insieme, in un futuro prossimo, vivremo una seconda vita nella realtà virtuale.
Davide Sisto, giovane filosofo che da lungo tempo ha consacrato i suoi studi alla relazione tra morte e cultura digitale, per la prima volta mette insieme un discorso interpretativo che ha al centro il rapporto nuovo della nostra società con la morte indotto dall’avanzamento tecnologico.
La morte si fa social è il migliore esempio di umanesimo capace di confrontarsi con l’era digitale. L’uomo ha sempre pensato la morte. Oggi più che mai, il digitale offre un’opportunità per ripensare la morte in una prospettiva rivoluzionata.
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Così Davide Sisto, filosofo e tanatologo, riassume in un’intervista la materia del suo (importante) libro La morte si fa social – Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale: «L’aldilà si sta sempre più spostando all’interno dei nostri computer.
Le persone, senza che neppure lo immaginassero, si sono ritrovate circondate dai morti e da ciò che resta dei morti in qualsiasi luogo del web, sui social media (su Facebook si contano 50 milioni di utenti deceduti), nei blog e ovunque in rete.
Questo fa sì che esistano oggi nuove opportunità di rielaborare tutto quello che abbiamo prodotto in vita, in modo tale da sopravvivere sotto forma di “spettro digitale”.
Questo aspetto problematizza l’elaborazione del lutto, poiché siamo circondati da immagini, post, video delle persone decedute in ogni istante della giornata: basta avere una connessione al web. È traumatico, perché impedisce un vero distacco. Siamo in presenza di rielaborazioni di alter ego virtuali che in qualche modo hanno reso possibile ciò che abbiamo sempre desiderato con le sedute spiritiche: che i morti continuino a comunicare con noi, seppure in maniera artificiale e automatica.»
Grazie alla capacità della tecnologia di rielaborare ciò che siamo stati in vita, anche la memoria e i ricordi si trasformano: questo aspetto, dice Sisto, si svilupperà nel corso degli anni con effetti probabilmente imprevedibili.
Uno dei tratti più importanti dell’esistenza umana che va riesaminato e ricalibrato tenendo conto della tecnologia di cui disponiamo oggi è proprio la morte: qualcosa che si tendeva a rimuovere e invece è tornata di prepotenza nello spazio pubblico.
«Pulizia della morte», eredità digitale, dati che rischiano di scomparire per sempre se non si danno disposizioni chiare sul loro utilizzo; fotografie di morti illustri che rimbalzano moltiplicandosi all’infinito da una pagina web all’altra, piattaforme interattive in cui familiari, amici e fans ricordano il defunto con aneddoti, poesie, immagini, lettere; archivi di memorie pubbliche e private in cui passato e presente si confondono.
Questa continuazione digitale della vita, spiega Sisto, non è tutta positiva ma neppure tutta negativa. L’«interazione postuma» può anche costituire un aiuto nell’elaborazione del lutto: «esporre su Facebook il proprio dolore ottenendo una sostanziosa risposta può essere una delle molteplici strade da seguire» per ritrovare una condizione di vita salubre dopo un lutto.
Un capitolo a sé è costituito dai suicidi online, sempre più diffusi da quando esiste la possibilità di condividere immagini in diretta. Lo hanno fatto in molti, soprattutto adolescenti, i cui filmati si sono diffusi a macchia d’olio prima di essere rimossi (lasciando comunque tracce reperibili).
«Quando una persona muore, i suoi amici e contatti aumentano del 30% il numero di interazioni tra loro all’interno di Facebook. Solo dopo diversi mesi, a volte addirittura anni, le interazioni tornano a stabilizzarsi a un valore pari a quello precedente il lutto. Pare che i livelli di interazione si mantengano assai elevati nelle reti che includono soprattutto persone di età compresa tra i 18 e i 24 anni, e che le reti in cui ha avuto luogo un suicidio mostrino un livello minore di capacità di recupero del lutto.»
D’altra parte, «la morte di una persona celebre può diventare l’occasione, sui social, per aprire discussioni dotate di un’oggettiva utilità. Il suicidio di Chris Cornell, per esempio, ha generato numerose riflessioni sul tema della depressione, di cui il cantante soffriva, e sulle strategie da seguire per fare rete – offline – in vista della prevenzione dei suicidi.»
Sisto analizza con profondità e lucidità tutte le facce, positive, negative e/o imprevedibili, della commistione tra realtà concreta e virtuale alla fine dell’umana esistenza terrena.
«L’autorità che la morte esercita nei confronti della vita, rendendola tale, è racchiusa nel potere della memoria, dalla quale prendiamo la forza per arricchire il nostro sentire, per crescere, per potenziare il nostro modo di pensare. Per amplificare, soprattutto, dentro di noi l’eco della vita di chi non c’è più e per preparare la nostra eco nella vita delle altre persone, quando saremo noi a non esserci più. Oggi, la cultura digitale offre alla memoria, quindi al rivolo spirituale tra l’aldiquà e l’aldilà, la possibilità di dare una voce tangibile e personale a quell’eco. Il corpo digitale può diventare il deposito di legami intimi, la voce consolante in grado di rivestire il ricordo di quegli abiti che hanno reso unico, nel bene e nel male, il rapporto con ciascuna delle persone amate.»
Immortalità digitale, suggestioni fantascientifiche che rappresentano, più che prefigurare, una realtà già ampiamente in atto, rapporto tra morte e social network, eredità digitale, funerali tecnologici in streaming, nascita di nuove figure professionali come il digital death manager: è tutto in questo libro stranamente (visto il tema) appassionante. Ma in fin dei conti non è strano che lo sia: è un argomento che riguarda tutti, senza eccezioni, ed è troppo importante per occuparsene domani.
Davide Sisto, La morte si fa social – immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale, Bollati Boringhieri 2018
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Laura Liberale 17/09/2020
Parte, da questo mese, una nuova rubrica: “Tanatodialoghi”, a cura della tanatologa Laura Liberale. Si comincia con Maria Angela Gelati.
Parte, da questo mese, una nuova rubrica: “Tanatodialoghi”, a cura della tanatologa
Laura Liberale. Si comincia con Maria Angela Gelati.
Benvenuta, Maria Angela, e grazie.
Comincerei proprio dal tuo impegno didattico, in prima linea anche in questo
momento di emergenza. La formazione specialistica di cui ti stai occupando nasce
dalla presa d’atto di come questa pandemia abbia universalmente stravolto la sfera
rituale del commiato, generando quello che tu hai giustamente definito “un lutto nel
lutto”. Parliamone.
Le diverse esigenze degli operatori e dei cerimonieri funerari, legate alla necessità di
dare riscontri alle richieste determinate dall’attuale emergenza sanitaria, hanno
interessato sia la sottoscritta che l'intero sistema funerario. E la risposta concordata ed unanime delle Federazioni del settore si è concretizzata con l’ideazione di un corso sui riti e le ritualità per onorare i defunti, in questo periodo di diffusione
dell’epidemia. Proprio le limitazioni imposteci, hanno condizionato il percorso
rituale che al momento non potrà avere le stesse caratteristiche delle cerimonie
tradizionali.
I divieti e le limitazioni, che non riguardano solo la preparazione e la cura del
defunto, con l’igiene e la vestizione del corpo, ma l’impossibilità di vedere e toccare
il proprio caro, frustrano ed inibiscono i sentimenti, impedendo di vegliare chi
amiamo. Il feretro viene chiuso frettolosamente, a volte anche senza una preghiera o
una benedizione o qualche parola di conforto del cerimoniere.
La fretta e la paura del contagio si sono sostituite alla elaborazione del lutto, la
cremazione alla tradizionale sepoltura.
Il lutto nel lutto perché l’ultimo saluto, concepito come prima, non esiste più. Come
non ci è permesso abbracciarci, scambiarci parole di sollievo che prima il rito
consentiva, così ora manca quel sentirsi parte della famiglia e della comunità.
Funerali online, dirette streaming: l’obbligo del distanziamento ci vede ricorrere a
una modalità di funerale che, pur non essendo nuova in termini temporali (penso
soprattutto a Stati Uniti e Gran Bretagna), è però del tutto nuova nel suo imporsi, in
questo momento, come unica modalità di condivisione allargata.
La tua visione in merito?
La mancanza del supporto della comunità, religiosa o laica che sia, destinato a far
superare il senso di afflizione e di angoscia, ora viene sostituito da una diversa
modalità di ciò che il rito sottende, nelle parole e nei gesti, nel tempo e negli spazi a
disposizione: con il coinvolgimento dei bambini, ad esempio, che hanno perduto i
nonni, la cui fragilità è stata sovrastata dalla pandemia.
Il rito che, riconsiderato e riletto, viene “tradotto” dagli strumenti digitali ed
informatici a disposizione, il cui utilizzo nonostante i pregiudizi, sta permettendo di
scoprire impensabili capacità (anche la Chiesa sta dimostrando di utilizzarli):
computer, smartphone, tablet e qualsiasi strumento che permetta la creazione di
contatti, anche attraverso la mediazione dello schermo, permettono di diluire nel
tempo l’atipicità del percorso rituale, le cui sfaccettature ne precludono alcune fasi
ma ne permettono altre, anche se diverse.
Ti chiedo anche se pensi che questa forma di funerale possa sostituirsi del tutto,
almeno finché così sarà ritenuto necessario, alle precedenti, oppure se, a beneficio dei
dolenti, sarà utile, quando possibile, “integrarla” con le tradizionali forme di
commiato, implicanti presenza fisica, vicinanza e contatto?
Come ogni evento che comporta trasformazioni epocali, ci sarà un prima e un dopo.
La fase del post emergenza sarà probabilmente caratterizzata da una sorta di
integrazione tra invenzione e tradizione, peraltro già avvertita e messa in atto a
livello rituale, in particolare con la nascita delle aule del commiato e di nuove figure
professionali come quella del cerimoniere funebre.
In questa fase di transito, occorre dare voce e consapevolezza a nuove forme
personali di saluto, per trasformare il dolore e le lacrime in parole e azioni
condivise.
In quali modi, secondo te, la figura del cerimoniere funebre può “ricollocarsi” nel
contesto emergenziale che stiamo vivendo?
L’innegabile inizio di una nuova era, tesa ad affrontare e superare l’emergenza
sanitaria, ha contribuito anche a far nascere forme rituali alternative di commiato
che intendono, nella loro essenzialità, rendere il dolore più sopportabile. Tra queste,
la figura del cerimoniere che, per la Casa funeraria o per l’impresa funebre, diviene
figura di fiducia per i dolenti sia nell’organizzare un momento commemorativo
online sia nel raccogliere le informazioni necessarie per riuscire a dare un attimo di
sollievo, personalizzando l’ultimo saluto, con il racconto ed il ricordo di momenti di
vita del defunto.
La sua presenza diviene ancora più significativa in alcune fasi cruciali del percorso
rituale, come nel rito di consegna delle ceneri, la cui gestione, a causa della
situazione dei crematori, congestionati fino a pochi giorni fa, rendeva impossibile
garantirne con certezza i tempi di affidamento.
Penso alle fosse comuni di Hart Island, negli USA. Ti chiedo di immaginare, come
studiosa, cerimoniere e scrittrice, un rito pubblico che possa onorare la loro memoria.
Ho predisposto, al riguardo, alcuni schemi rituali per cercare di sostenersi nella
dimensione commemorativa, vivendo un momento collettivo, che possono ben
adattarsi anche ad Hart Island.
A pochi giorni dalla parziale riapertura alle frequentazioni ed ai contatti, sono state
attivate diverse tipologie di servizi di supporto al lutto per integrare le carenze della
vicinanza e della presenza fisica.
Le persone che sono morte in questo terribile periodo fanno parte di un dramma che
accomuna tutti e che, d’altro canto, fa sentire la forza del vivere, proprio quando la
vita termina e conferisce nuovo valore al senso della comunità e dell’appartenenza
sociale, creando nuovi modi per stare insieme e condividere i sentimenti.
La poesia, la musica, gli oggetti-simbolo sono sicuramente elementi significativi che
possono integrarsi all’energia ed alla vitalità della straordinarietà della
commemorazione pubblica.
Maria Angela Gelati, tanatologa e formatrice nelle materie collegate alla morte, al
lutto ed alla Death education. Ideatrice e curatrice, insieme a Marco Pipitone, della
prima Rassegna di Cultura in Death Education Il Rumore del
Lutto (www.ilrumoredellutto.com), è giornalista e blogger. Nel 2016 ha co-fondato
l’Associazione Segnali di Vita e il Gruppo Nazionale di Lavoro “Stanza del Silenzio
e dei Culti”.
Come docente collabora con molte realtà tra le quali il Master Death Studies & the
End of Life (Dipartimento FISPPA) dell’Università degli Studi di Padova (diretto
dalla Prof.ssa Ines Testoni).
Autrice di numerosi articoli e saggi inseriti in miscellanee, ha pubblicato le favole di
Death Education Il lecca-lecca di cristallo (Terra marique, 2018) e L’albero della
vita (Mursia, 2015). Ha curato i libri Ritualità del silenzio. Guida per il cerimoniere
funebre (Nuovadimensione, 2018) e Ci sono cose che (Diritto d’autore, 2012).
Il suo impegno umano e scientifico contribuisce al miglioramento di una corretta
cultura della vita che ha in sé la morte.
Laura Liberale, tanatologa e indologa, è laureata in Filosofia (Università degli Studi
di Torino), è dottore di Ricerca in Studi Indologici (Università La Sapienza di Roma),
docente di scrittura al Master in Death Studies & the End of Life (Università degli
Studi di Padova). Da diversi anni tiene corsi e seminari di scrittura creativa e di
Cultura e Filosofia dell'India. Ha ottenuto riconoscimenti in svariati premi di poesia e
narrativa. È docente in corsi di formazione per infermieri nell’ambito delle medical
humanities. Ha pubblicato i romanzi Tanatoparty (Meridiano Zero, 2009),
Madreferro (Perdisa Pop, 2012), Planctus (Meridiano Zero, 2014); le raccolte
poetiche Sari – poesie per la figlia (d’If, 2009), Ballabile terreo (d’If, 2011), La
disponibilità della nostra carne (Oèdipus); i saggi indologici I mille nomi di Gaṅgā
(Edizioni dell’Orso, 2003), I Devīnāmastotra hindū – Gli inni purāṇici dei nomi della
Dea (Edizioni dell’Orso, 2007), I nomi di Śiva (Cleup, 2018). È presente tra gli autori
di Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012).
Barbara Ruscitti 15/02/2024
La Pandemia e il Silenzio dei Custodi dell'Ultimo Addio: Una Storia di Rispetto e Sacrificio
È il 2024, e finalmente, sembra essere giunto il momento di aprire un dialogo riflessivo sulla pandemia di COVID-19, un periodo che ha scosso il mondo, lasciando dietro di sé storie di dolore, perdita e resilienza. Tuttavia, c'è un aspetto di questa crisi che spesso è rimasto nell'ombra, nascosto dietro il silenzio rispettoso di coloro che vivono il dolore della morte ogni giorno: i custodi dell'ultimo addio.
In un mondo in cui medici, infermieri, politici e virologi sono stati al centro della scena mediatica, gli operatori delle pompe funebri hanno agito nell'ombra, offrendo il loro servizio con dedizione e umanità. Il 2024 è iniziato, ma è tempo di dare voce a chi ha affrontato la pandemia da una prospettiva unica.
Un primo pensiero va ai colleghi che hanno perso la vita durante questa crisi, inclusi nella lunga lista delle vittime. Nonostante la loro importanza, il lavoro di questi custodi dell'ultimo addio è stato spesso ignorato dai mezzi di informazione, che si sono concentrati su altre figure cruciali nella gestione della pandemia.
Il Santo Padre ha offerto un unico ringraziamento durante un Angelus domenicale, riconoscendo il loro prezioso lavoro. Tuttavia, il silenzio mediatico ha persistito, relegando l'importanza del loro ruolo a un secondo piano. Vivendo una realtà in cui il lutto si mescola con la routine quotidiana, questi professionisti sono abituati a gesti scaramantici, osservati mentre sono fermi al semaforo con i loro mezzi di lavoro.
Nonostante la percezione comune che il loro lavoro sia dettato dal guadagno, questi custodi dell'ultimo addio si distinguono per il rispetto e l'umanità con cui trattano ogni defunto. Ognuno di loro adotta piccole attenzioni, come mettere un fiore tra le mani del defunto, nascondere un santino nella cassa o posare una monetina o una medaglietta. Questi gesti non sono per i propri cari, ma per le persone di cui si stanno occupando, dimostrando un amore che va oltre le convenzioni.
La pandemia ha rappresentato una sfida emotiva per questi professionisti, impedendo loro di trattare i defunti con la cura abituale e l'amore che li contraddistingue. La mancanza di interazione con le famiglie ha impedito loro di esprimere la solidarietà umana che è parte integrante del loro lavoro.
Ora, finalmente, il periodo difficile sembra essere alle spalle, e la normalità è tornata. Tuttavia, l'amaro in bocca e il disgusto per la mancanza di riconoscimento persistono. Il periodo della pandemia rimarrà impresso come un periodo in cui la loro umanità non è stata riconosciuta.
In questo contesto, il gesto di Tassera Guido, un appello a un brindisi di ringraziamento tra di loro, è un atto meritato di celebrazione per il loro impegno e la loro dedizione. In fondo, sono stati gli eroi silenziosi che hanno mantenuto la dignità nel momento più difficile.
Laura Liberale 29/10/2020
Intervista ad Alessia Zielo, archeo-tanatologa e divulgatrice scientifica
Docente al Master in “Death Studies & The End of Life” (Università degli Studi di Padova). Si è occupata in particolare dei riti funebri e delle modalità di deposizione delle sepolture del passato e della società contemporanea. È docente in corsi di formazione per infermieri nell’ambito delle medical humanities.
Curatrice della sezione Il morire: Antropologia e tanatologia del Portale:
vivereilmorire.eu. Tra le pubblicazioni: Testoni, I., Zielo, A., Schiavo, C., Iacona, E. (2020). The Last Glance: How
Aesthetic Observation of Corpses Facilitates Detachment in Grief Work. Illness, Crisis & Loss 0(0) 1–17. Zielo, A.,
Liberale, L. (2019). Trasformazioni identitarie post mortem nel mondo antico occidentale e orientale, in Zorzi
Meneguzzo, L., Testoni, I. (a cura di) (2019). “Identità: costruzioni plasmate dai lutti”, Arcane Editrice. Zielo,
A..(2018). Officiare il rito funebre nel mondo antico. In Gelati, MA. (a cura di). “Ritualità del silenzio. Guida per il
cerimoniere funebre”. Nuova Dimensione. Zielo, A. After-Death Manipulation: The Treatment of the Skull in
Prehistoric Funeral. August 22 2018, Global Journal of Archaeology & Anthropology (GJAA), 427 W Duarte Rd,
Suite E, Arcadia, California, CA 91007 United States. A cura di Coron, D., Zielo A. (2015). Vedere oltre.
La spiritualità dinanzi al morire: dal corpo malato alla salvezza, Raccolta antologica di poesie e racconti. Rupe Mutevole.
L’archeologia, e in particolare lo studio e la decodificazione delle sepolture antiche, può
contribuire a comprendere maggiormente i cambiamenti dei rituali sia contemporanei che futuri?
In passato si era soliti pensare all’archeologia come a una disciplina prevalentemente umanistica,
interessata a recuperare i reperti “più esteticamente rappresentativi”. In seguito, si è compreso che
era necessario cercare il dialogo con altri ambiti di studio, per trovare nuovi orizzonti nella
comprensione dell’avventura dell’uomo attraverso il tempo e far collaborare archeologi con
architetti, informatici, geologi, fisici e chimici. Per esempio, nell’ambito dell’archeologia
tafonomica (lo studio delle alterazioni subite da un corpo dopo il suo seppellimento), risulta
importante avvalersi della medicina legale, dell’antropologia, della paleopatologia. Inoltre per
comprendere meglio una sepoltura è determinante l’analisi dei resti umani, il restauro e la
conservazione dei materiali osteologici. L’approccio archeologico permette di conoscere le
modalità di deposizione; i diversi tipi di giacimenti funerari; le sepolture primarie e secondarie; la
disposizione delle offerte, degli elementi della parure e dell’abbigliamento. L’antracologia, in
particolare, si occupa di analizzare i resti di carbone provenienti dalla combustione del legno usato
nei rituali funebri (le pire). E’ di fondamentale importanza inoltre analizzare con un approccio
scientifico i reperti che rappresentano, anche simbolicamente, l’individuo ivi sepolto.
Un anno fa hai compiuto uno studio su un caso di morte recente evidenziando l’importanza
della metodologia archeologica ed antropologica. Di che cosa si trattava?
Ci sono affinità evidenti tra la figura dell’archeologo, che procede a ritroso indagando sul passato
fino alla spiegazione possibile di un contesto, quella del detective che opera sulla scena del crimine
per ricostruire un omicidio, e quella dello psichiatra che, “scavando” a ritroso nella “storia” di un
paziente, ricerca la possibile origine psichica delle patologie mentali. Un archeologo “indaga” per
contestualizzare i reperti, per decodificarli, per datarli. Si chiede “come, quando e perché”. Al fine
di accertare elementi o fatti rilevanti per le indagini, gli archeologi forensi applicano le metodologie
proprie dell’archeologia (ricognizione, tecniche di rilevamento, scavo stratigrafico, archiviazione e
classificazione dei reperti) per la localizzazione e il recupero dei resti e per lo studio delle modalità
e dei processi di deposizione, anche in considerazione del contesto di ritrovamento. L’analisi e
l’identificazione dei resti ossei umani per procedere alla redazione di un profilo biologico è
demandata invece agli antropologi e agli odontologi forensi.
A volte la scena del crimine non è una stanza, uno scantinato, un sottopassaggio o una strada, ma è
sepolta: frammenti di ossa umane affiorano dopo una pioggia torrenziale; un cadavere in avanzato
stato di decomposizione viene rinvenuto durante uno scavo in un cantiere edile; un collaboratore di
giustizia suggerisce il luogo dove sarebbe stato occultato il corpo di una vittima d’omicidio.
Il corpo deve quindi essere individuato e recuperato; deve essere stimato il tempo trascorso dal
decesso, le cause di morte, le modalità di occultamento. Grazie all’analisi del contesto, allo scavo
stratigrafico in situ, l’archeologo forense è in grado di fornire elementi utili alle Forze Investigative
inserendosi come tecnico tra le discipline specialistiche che allargano il mondo della Medicina Legale edivenendo un ulteriore interlocutore della Magistratura.
Mi interessai, in particolare, del caso della morte di un ragazzo, Nicola Tincani, scomparso la sera
del 22 febbraio 2014 dopo una serata trascorsa in un locale della provincia di Padova in compagnia
di alcuni amici. Dopo due giorni il suo corpo viene trovato poco distante dalla sua bicicletta. Che
cosa era accaduto? Come e perché era finito in acqua? Ad oggi il caso è ancora archiviato. Rimane
un orizzonte di risoluzione la caparbietà con cui i genitori a tutt’oggi, tramite il legale di fiducia,
ancora richiedono la riapertura del caso con un notevole dispendio emotivo ed economico.
A distanza di alcuni anni rimangono tanti, troppi dubbi sulle reali cause che hanno condotto alla morte
di Nicola. L’impressione da osservatore partecipante esterno mi ha indotto a far emergere
l’incompletezza, la mancanza di spiegazioni adeguate e complete che supportassero la teoria
dell’incidente. Sarebbe poi emersa la mancanza di tempestività nella fase di analisi di tracce che
erano fondamentali, la loro mancata repertazione sul luogo e l’analisi sui vestiti e sul corpo stesso di
Nicola come si evince dai risultati dell’autopsia. Descrivere le reali condizioni del corpo indicando
il prelievo delle tracce dai capelli e sotto le unghie poteva fornire agli investigatori informazioni
molto utili.
La paura del morto è ancestrale, ha interessato tutte le culture, tra cui l’Occidente cristiano.
Secondo te vi è una spiegazione a questo comportamento così universale?
La morte rappresenta da sempre, e in quasi tutte le culture, il momento più traumatico e di crisi con
cui l’uomo deve confrontarsi: l’angoscia del distacco definitivo, l’assenza di certezze riguardo
l’oltretomba, la paura, l’immediata estraneità del corpo umano privo di vita, l’eventuale dolore e il
senso del vuoto incolmabile che lascia una persona amata.
Ritrovamenti archeologici e fonti letterarie testimoniano alcuni casi di riapertura di tombe e la
mutilazione del cadavere, atti dovuti probabilmente alla volontà di rendere definitivamente innocue
persone considerate malvagie, nefaste e pericolose, delle quali si temeva il ritorno in vita e alle quali
doveva essere imputato un evento inspiegabile, come morti dovute a epidemie. Le strategie per
fermare il morto e impedirne il ritorno si possono così catalogare in base ai ritrovamenti
archeologici: impedire l’uscita dalla tomba apponendo pietre sulle gambe e sul corpo; sepoltura
bocconi (ma forse questo rituale può riconnettersi anche a una modalità di esecuzione capitale);
legare gli arti con legacci di varia natura; usare oggetti apotropaici e funzionali, come chiodi che
fissano materialmente il corpo alla sepoltura, oppure un sasso in bocca; tagliare la testa e metterla
tra le gambe.
Il corpo dopo la morte può suscitare paura e ansia che possono ricondursi alle alterazioni cui il
cadavere va incontro in fase di decomposizione in un processo che può essere “alterato”
casualmente o intenzionalmente dalla natura e dalla cultura: si manifestano processi esclusivamente
naturali (fisici, chimici, biologici) che prendono il nome di «tanato-morfosi» (dal greco thánatos,
‘morte’, e morphé, ‘forma’) e trasformano il corpo in maniera irreversibile e radicale allontanandolo
sempre più dalla sua condizione biologica di organismo individuale e autonomo, oltre che dalla sua
condizione sociale di persona. Al momento del decesso di un individuo la società si trova ad
affrontare un enorme trauma che deve essere obbligatoriamente gestito ritualmente. La vita sociale
dei resti, in quanto forma di riappropriazione culturale, si presenta allora come la risposta positiva
delle comunità umane alla fine biologica.
L'adozione di pratiche tendenti ad assicurare la conservazione del cadavere è diffusa presso
numerose popolazioni. Quali erano le tecniche di conservazione del corpo nel mondo antico?
Fin dagli albori della civiltà, gli uomini hanno sempre cercato di preservare i loro morti dalla
putrefazione. Oltre alle imbalsamazioni degli Egizi e dei Guanches, sono stati utilizzati molti altri
metodi, indipendentemente dalla razza, dalla religione e dal clima. Sono stati ritrovati, in Africa ed
in Asia, dei corpi collocati dentro a cavità riempite di catrame, bitume, carbone di legna o con altri
prodotti ritenuti dei conservanti. In America Centrale ed in Perù, sono stati scoperti alcuni cadaveri
mummificati, sepolti in immense giare, riempite senza alcun dubbio di erbe, o di sale vegetale; tali
giare erano state poste dentro a grotte in cui l'aria era particolarmente secca e salubre, a temperatura
costante. Gli Egizi raggiunsero nell'arte d'imbalsamare i cadaveri una singolare perfezione,
testimoniata dalla conservazione delle loro mummie. Erodoto e Diodoro Siculo hanno lasciato
un'accurata descrizione dei loro sistemi: l'imbalsamazione era eseguita in un laboratorio chiamato
“la buona casa", da artigiani specializzati. Tecniche di conservazione del cadavere furono praticate
anche nel mondo greco-romano. Stazio ci riporta la testimonianza dell’uso di cera e altre sostanze
aromatiche e resinose della moglie di un liberto di Domiziano, scomparsa nel 95 d.C.: «gli anni non
potranno arrecare nessun danno al corpo di Priscilla, che rimarrà preservato nel tempo all'interno
della sua tomba di marmo».
È importante sottolineare che il risultato voluto era quello della mummificazione del cadavere, cioè
della sua conservazione eterna, e questo per uno scopo essenzialmente metafisico legato, nella
maggior parte dei casi, alle credenze nella metempsicosi. Bisogna aggiungere, comunque, che anche
l'igiene era, pur se in misura minore, una delle ragioni dell'imbalsamazione praticata su tutti i
defunti. L'Egitto sembra quindi avere inventato la conservazione in asepsi e l'eccellenza dei suoi
metodi ha fatto sì che i principi da esso utilizzati venissero ripresi anche nelle tanatoprassi moderne.
Lo scavo archeologico come metafora della nostra esistenza: è il titolo di un laboratorio che
proponi in ambito formativo a operatori sanitari e anche nelle scuole. Di cosa si tratta
esattamente?
Lo scavo, riferito metaforicamente alla nostra esistenza e ai passaggi frequenti che dobbiamo
attraversare (come accade spesso agli adolescenti), può anche rappresentare l’occasione in cui far
emergere, strato dopo strato, i ricordi che costituiscono l’identità di una persona e dei suoi rapporti
con l’ambiente familiare, sociale e culturale. Viene introdotto il metodo dello scavo archeologico
per far emergere “la propria storia”, così come accade nell’ambito della ricognizione di una
sepoltura antica laddove ogni oggetto assurge a simbolo della social persona che è stata sepolta.
I linguaggi della cura per chi cura, in particolare, è il titolo di un importante progetto che io,
insieme a Laura Liberale, Maria Giardini e Federica Lo Dato, stiamo proponendo a tutti quei
medici, infermieri e operatori sanitari che hanno dovuto fronteggiare un’emergenza sanitaria quale
l’epidemia del Covid 19. Da fine febbraio 2020 tutto il personale sanitario è sottoposto
costantemente a uno stress emotivo altissimo: una pressione difficile da sostenere e che, se non
gestita adeguatamente, potrà portare ad un crollo emotivo nel prossimo futuro. Il nostro gruppo di
lavoro multidisciplinare nasce dall'esperienza condivisa nell’ambito degli death studies (ricerche
sull’accompagnamento alla morte e sulla elaborazione del lutto) e, in particolare, nei progetti e
seminari sulla resilienza con l'utilizzo di metodologie attive innovative. Nell’ambito di questa
proposta vi sono, accanto agli interventi di tipo psicoterapico, i seminari relativi alla scrittura e alla
archeologia riabilitativa, utilissime strategie per valorizzare il lavoro dei numerosi caregivers a
contatto ogni giorno con la malattia e la morte.