La Pandemia e il Silenzio dei Custodi dell'Ultimo Addio: Una Storia di Rispetto e Sacrificio

Il racconto di Guido Tassera un operatore che ha vissuto direttamente la gestione delle salme negli Ospedali del nord nel periodo della pandemia

Barbara Ruscitti 15/02/2024 0

È il 2024, e finalmente, sembra essere giunto il momento di aprire un dialogo riflessivo sulla pandemia di COVID-19, un periodo che ha scosso il mondo, lasciando dietro di sé storie di dolore, perdita e resilienza. Tuttavia, c'è un aspetto di questa crisi che spesso è rimasto nell'ombra, nascosto dietro il silenzio rispettoso di coloro che vivono il dolore della morte ogni giorno: i custodi dell'ultimo addio.

In un mondo in cui medici, infermieri, politici e virologi sono stati al centro della scena mediatica, gli operatori delle pompe funebri hanno agito nell'ombra, offrendo il loro servizio con dedizione e umanità. Il 2024 è iniziato, ma è tempo di dare voce a chi ha affrontato la pandemia da una prospettiva unica.

Un primo pensiero va ai colleghi che hanno perso la vita durante questa crisi, inclusi nella lunga lista delle vittime. Nonostante la loro importanza, il lavoro di questi custodi dell'ultimo addio è stato spesso ignorato dai mezzi di informazione, che si sono concentrati su altre figure cruciali nella gestione della pandemia.

Il Santo Padre ha offerto un unico ringraziamento durante un Angelus domenicale, riconoscendo il loro prezioso lavoro. Tuttavia, il silenzio mediatico ha persistito, relegando l'importanza del loro ruolo a un secondo piano. Vivendo una realtà in cui il lutto si mescola con la routine quotidiana, questi professionisti sono abituati a gesti scaramantici, osservati mentre sono fermi al semaforo con i loro mezzi di lavoro.

Nonostante la percezione comune che il loro lavoro sia dettato dal guadagno, questi custodi dell'ultimo addio si distinguono per il rispetto e l'umanità con cui trattano ogni defunto. Ognuno di loro adotta piccole attenzioni, come mettere un fiore tra le mani del defunto, nascondere un santino nella cassa o posare una monetina o una medaglietta. Questi gesti non sono per i propri cari, ma per le persone di cui si stanno occupando, dimostrando un amore che va oltre le convenzioni.

La pandemia ha rappresentato una sfida emotiva per questi professionisti, impedendo loro di trattare i defunti con la cura abituale e l'amore che li contraddistingue. La mancanza di interazione con le famiglie ha impedito loro di esprimere la solidarietà umana che è parte integrante del loro lavoro.

Ora, finalmente, il periodo difficile sembra essere alle spalle, e la normalità è tornata. Tuttavia, l'amaro in bocca e il disgusto per la mancanza di riconoscimento persistono. Il periodo della pandemia rimarrà impresso come un periodo in cui la loro umanità non è stata riconosciuta.

In questo contesto, il gesto di Tassera Guido, un appello a un brindisi di ringraziamento tra di loro, è un atto meritato di celebrazione per il loro impegno e la loro dedizione. In fondo, sono stati gli eroi silenziosi che hanno mantenuto la dignità nel momento più difficile.

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Laura Liberale 29/09/2020

Questo mese incontriamo la Servizi Funebri Ramini, della provincia di Padova.

Un’impresa giovane, sia in senso cronologico sia per la giovane età del titolare, ventitré anni per l’esattezza. E proprio da qui vorrei partire.

In molti mi hanno chiesto come mai un ragazzo della mia età si fosse

avvicinato a questo ambiente e tante volte sono stato deriso e bistrattato

da chi mi chiamava “il becchino” facendo gesti scaramantici in quanto

messaggero di morte.

Tutto è iniziato quando ancora frequentavo le scuole medie e un mio caro

amico e compagno di scuola è venuto a mancare dopo una lunga malattia.

La perdita di una persona cara è sempre dolorosa, ma quando si tratta di

un ragazzo lo è ancora di più. Sono rimasto traumatizzato e sono stato

così male che ogni giorno sentivo il bisogno di andare a trovarlo al

cimitero e passare un po’ di tempo con lui.

Forse un segno del destino a indicarmi la strada così come il fatto di

essere nato nel giorno della commemorazione dei defunti.

Le frequenti visite al camposanto mi hanno portato a relazionarmi spesso

con vari operatori del settore funebre dando loro una mano in qualche

occasione. Molti erano i quesiti che ponevo riguardo questo mondo

oscuro, quasi inviolabile, ricco di segreti, ma non ne ero spaventato anzi

ne ero affascinato.

Durante la scuola superiore, quando potevo, collaboravo con varie

imprese per i servizi funebri e poi al termine della scuola è diventata una

vera e propria professione.

Dopo qualche anno, è nato il desiderio di mettermi in proprio. Le

difficoltà sono state tante, come pure l’impegno economico. Un settore

difficile, per pochi e senza avere una azienda di famiglia alle spalle, quasi

impossibile. Un vero salto nel vuoto, ma la passione e l’amore per questo

mestiere non mi hanno fatto rinunciare. Questa professione non è facile,

dietro ci stanno molti pregiudizi, che catalogano gli impresari come

individui assetati di denaro e approfittatori del dolore.

Ma ho sempre cercato di fare capire alla gente chi sono e lo spirito di

come mi approccio a questo mestiere, cioè con sensibilità, onestà,

trasparenza e rispetto.

Per me fare l’impresario funebre non è solo un lavoro, è una vera

missione. Oltre agli aspetti tecnici di cui mi occupo personalmente,

documentazione, tanatoestetica, lavori cimiteriali e quant’altro, l’aspetto

a cui tengo e che curo maggiormente è il rapporto umano.

 

Il fatto di stare a fianco delle persone e dare loro aiuto e supporto nelle

varie fasi post decesso e un degno addio al loro caro mi fa sentire bene. Si

creano amicizie e rapporti che vanno oltre, che non si estinguono a fine

servizio, ma che durano nel tempo, e questa per me è la cosa più

gratificante.

Come avete fronteggiato l’impatto con l’emergenza Covid-19? Quali sono

stati i principali cambiamenti\adattamenti a livello organizzativo e le

maggiori difficoltà affrontate?

All’iniziale sgomento che la tragedia sanitaria e sociale conseguente a

questa epidemia ha suscitato, noi, come impresa funebre, ci siamo

preoccupati di come fronteggiare la situazione dal punto di vista dei

contagi, essendo parte di una categoria tra quelle più esposte. Eravamo

preoccupati di come espletare il nostro lavoro in sicurezza. Ad accentuare

la preoccupazione è stata la mancanza immediata di linee guida ufficiali

che potessero in qualche modo aiutarci dal lato operativo, dato che il

nostro lavoro comportava un contatto diretto sia con le salme che con i

familiari di malati Covid-19. Ma nessuno sembrava interessarsi alla

nostra categoria, eravamo quasi degli invisibili.

Dopo il lockdown e vietati gli assembramenti, incluse quindi le cerimonie

funebri, ci siamo trovati in un periodo in cui abbiamo usato il buon senso

e le regole generali divulgate per il contenimento del contagio, quali

l’utilizzo degli strumenti di protezione che comunque inizialmente si

faceva fatica anche a reperire.

Tante erano le domande che ci ponevamo assieme ai colleghi: come fare i

funerali data la sospensione delle cerimonie religiose, come gestire i

decessi a domicilio, come manipolare le salme infette, come gestire la

parte burocratica che prevedeva il recarsi di persona presso i vari uffici,

come relazionarci con i familiari, non escludendo che alcuni di loro

potessero essere positivi.

Dopo aver fatto sentire le nostre voci anche attraverso le associazioni di

categoria, finalmente sono uscite le circolari del Ministero della Salute

dell’8 aprile e del 2 maggio: “Linee guida per la prevenzione del rischio

biologico nel settore dei servizi necroscopici, autoptici e delle pompe

funebri”, dove finalmente sono state messe nero su bianco le normative

che dovevano regolare il nostro specifico settore.

Non sto qui a citare tutti dettagli, ma in poche parole e riassumendo

grossolanamente, le direttive da seguire sarebbero state quelle utilizzate

 

per il trattamento delle salme infettive, cioè evitarne la manipolazione

attraverso la vestizione ma avvolgerle in lenzuola imbevute di disinfettante

o in sacchi biodegradabili; niente trattamenti di tanatoestetica, trasporti a

cassa chiusa ecc. E poi tutto il protocollo previsto per evitare il contagio

con l’utilizzo, per gli operatori, dei dispositivi di sicurezza quali

mascherine, guanti, tute, occhiali e quant’altro.

Qualche modifica poi è stata fatta negli uffici comunali e nelle aziende

ospedaliere e sanitarie, per sveltire l’iter delle pratiche ed evitare il

contatto personale, con la trasmissione dei documenti per via telematica.

Quali sono, in questo periodo così travagliato, le richieste dei dolenti?

I dolenti non hanno fatto particolari richieste in questo momento; hanno

solo chiesto delucidazioni su quello che si poteva o non si poteva fare e,

sebbene con rammarico e rassegnazione, si sono adeguati alla situazione

e alle regole imposte dai vari decreti.

La riduzione drastica della parte rituale del funerale imposta per il

contenimento della diffusione del virus, in aggiunta anche al clima di

incertezza economica venutasi a creare in seguito all’epidemia, ha fatto sì

che i familiari abbiano rinunciato alla qualità, ad esempio, dei cofani e ad

addobbi e accessori decorativi, optando per un funerale assolutamente di

tipo spartano. Non neghiamo che questo impoverimento delle cerimonie

funebri ha avuto un certo impatto a livello economico anche per noi

imprese.

La cremazione è stato il metodo di sepoltura più richiesto, sia perché

ormai è il trend del momento, sia per risparmiare, ma secondo me anche

perché si ha la sensazione che l’incenerimento del corpo, presupponendo

la conseguente distruzione del virus, elimini ogni possibile contaminazione

del terreno di contro alle fuoriuscite di gas infetti in caso di esumazioni o

estumulazioni, anche se in realtà non è così.

Come vivete emotivamente, in quanto operatori in costante contatto coi

corpi e con le strutture sanitarie, il rischio del contagio?

Ci hanno detto che la trasmissione del virus avviene per droplets e che con

il decesso, venendo a cessare le funzioni vitali e quindi respiratorie, le

salme non sono fonti di contagio.

Ma il caso di decessi a domicilio o nelle case di cura e RSA dove la

preparazione della salma spetta comunque all’impresa funebre, sebbene

vengano usati tutti gli accorgimenti e i dispositivi di sicurezza, non ci ha

 

fatto stare del tutto tranquilli e sicuri; inoltre il contatto con i parenti dei

deceduti non lo puoi evitare,

e normalmente si tratta di persone che magari hanno frequentato ambienti

sanitari, persone malate oppure, come in tanti casi, possono essere positivi

asintomatici, come potremmo esserlo noi del resto.

In questo periodo abbiamo utilizzato il più possibile gli strumenti messi a

disposizione dalla tecnologia, quali telefono, mail o whatsapp per

eventuali comunicazioni, ma non in tutti i casi è possibile, vedi le persone

anziane, e comunque non abbiamo voluto negare in un momento così

doloroso e drammatico, seppur correndo alcuni rischi, il nostro supporto e

la nostra presenza fisica, indispensabile e doverosa. Quello che ci ha

anche messo in una situazione di imbarazzo e di difficoltà è stato il fatto di

dover accogliere nei nostri uffici, o andare a casa dei dolenti, coperti con

mascherine e guanti senza neanche poter dare loro la mano o un

abbraccio di conforto.

Puoi raccontarci un’esperienza lavorativa di questi ultimi due mesi che ti

ha particolarmente colpito a livello umano?

Sia nel caso di decesso per Covid-19 sia per altre cause, il coinvolgimento

emotivo è inevitabile, sempre. Difficile conciliare nel nostro lavoro le

distanze che impongono i protocolli sanitari con il rapporto umano.

In questo specifico periodo, non c’è stato un particolare episodio che ci ha

colpito; ogni caso è a sé, ognuno con la sua storia, ognuno ci ha toccato

dal punto di vista umano. In generale quello che ci ha addolorato di più è

stato in primo luogo il fatto di non poter dare la possibilità ai familiari di

vedere neanche per un attimo il loro caro; poterlo salutare sfiorandogli la

mano o la fronte, potere vedere e ricordare il suo volto sereno e tranquillo,

e invece costretti magari a immaginare cose orribili.

In secondo luogo, il negare loro quella celebrazione collettiva, cioè il rito

del funerale, che significava poter condividere il dolore e l’estremo saluto

con i parenti, gli amici e i conoscenti, con le dimostrazioni di affetto e

vicinanza.

Sia la ritualizzazione del commiato che quel momento di intimo

raccoglimento con chi è mancato sono due elementi fondamentali per il

processo di elaborazione del lutto. Ci sembra che, come “professionisti

dell’addio”, di non avere adempiuto alla nostra missione nella sua

completezza, anche se non è dipeso certo dalla nostra volontà.

Vorrei concludere con una citazione tratta da un brano che

 

esprime, a discapito di ogni pregiudizio, il valore del nostro mestiere, della

nostra categoria di lavoratori, in questo periodo particolarmente

sottoposta a grandi pressioni fisiche ed emotive, ma di cui mi sento

onorato di fare parte.

“Signor becchino mi ascolti un poco

il suo lavoro a tutti non piace

non lo consideran tanto un bel gioco

coprir di terra chi riposa in pace

ed è per questo che io mi onoro

nel consegnarle la vanga d'oro

ed è per questo che io mi onoro

nel consegnarle la vanga d'oro.

Il testamento, Fabrizio De Andrè.

 

Laura Liberale, tanatologa e indologa, è laureata in Filosofia (Università degli Studi

di Torino), è dottore di Ricerca in Studi Indologici (Università La Sapienza di Roma),

docente di scrittura al Master in Death Studies & the End of Life (Università degli

Studi di Padova). Da diversi anni tiene corsi e seminari di scrittura creativa e di

Cultura e Filosofia dell'India. Ha ottenuto riconoscimenti in svariati premi di poesia e

narrativa. È docente in corsi di formazione per infermieri nell’ambito delle medical

humanities. Ha pubblicato i romanzi Tanatoparty (Meridiano Zero, 2009),

Madreferro (Perdisa Pop, 2012), Planctus (Meridiano Zero, 2014); le raccolte

poetiche Sari – poesie per la figlia (d’If, 2009), Ballabile terreo (d’If, 2011), La

disponibilità della nostra carne (Oèdipus); i saggi indologici I mille nomi di Gaṅgā

(Edizioni dell’Orso, 2003), I Devīnāmastotra hindū – Gli inni purāṇici dei nomi della

Dea (Edizioni dell’Orso, 2007), I nomi di Śiva (Cleup, 2018). È presente tra gli autori

di Nuovi poeti italiani 6 (Einaudi, 2012).

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Laura Liberale 11/04/2021

Un Percorso di Death Education

Laura Liberale intervista Elena Alfonsi

Perché ti occupi di raccontare la morte attraverso l’analisi delle opere d’arte?

Le opere d’Arte sono una straordinaria opportunità per fornire concretamente all’individuo la

dimostrazione di come le dimensioni individuali, relazionali, sociali entrino inevitabilmente in

gioco nei rapporti tra morte, cultura e storia; situazioni sociali e biografie individuali; condizioni di

malattia e vita quotidiana; perdite ed elaborazioni nelle diverse età della vita; interiorità e codici

comportamentali condivisi.

Se riteniamo che la cultura del mondo debba essere tutelata, ossia difesa e salvaguardata, poiché

fondante per la vita degli uomini, dovremmo ritenere, a maggior ragione, che anche la vita degli

uomini debba poter essere tutelata quindi difesa e salvaguardata ma anche: assistita, curata, protetta.

A questo proposito il percorso di DeAd che propongo, e che si intitola La Morte nell’Arte pone

attenzione, con l’ausilio delle immagini di opere d’Arte, alla sofferenza, al dolore e alla perdita

cercando di riconoscere nelle creazioni artistiche dell’uomo i profili dell’angoscia causata

dall’incontro con la morte e osservare come gli artisti abbiano gestito il suo racconto. L’insieme

delle opere d’Arte prese in considerazione daranno la possibilità di instaurare un confronto culturale

ampio in grado di promuovere l’integrazione della morte nella vita.

L’Arte permette di continuare a sensibilizzare la società sulla fondamentale importanza di divulgare

il lavoro dei professionisti che si occupano della cura dell’angoscia per la morte. Questo con

l’educazione, che è formazione, per portare a considerare le esperienze di perdita (intesa nelle sue

varie accezioni) e di lutto, come parti essenziali del senso della vita.

La paura di morire, di un corpo che si trasforma e della sua successiva decomposizione sono

ossessioni da emarginare. Per questo è indispensabile colmare la distanza che separa il pensiero dei

vivi dal loro giungere comunque inesorabilmente a un termine conducendo la società a raggiungere

un conveniente livello intellettuale e morale per divenire: “amica della morte” - “alfabetizzata dalla

morte”.

Guidare alla presa di coscienza dell’ultimo avvenimento della vita umana, reintegrando il pensiero

della morte nella vita collettiva, è un terreno educativo da presidiare in una prospettiva didattica

costante, non emergenziale né riparatoria ossia che tenda ad allontanarne o peggio sradicarne il

ricordo. Dobbiamo invece favorire il riavvicinamento dell’uomo al pensiero della morte. L’obiettivo

è rendere cosciente la comunità della fondamentale importanza di un percorso di consapevolezza

dell’esistenza di un fine vita nell’inscindibile rapporto con la vita. Attraverso la cultura potremo

sempre riflettere sulla cessazione delle funzioni vitali nell’uomo per rendere gli individui più maturi

e di supporto nei riti di passaggio per la pace dei vivi.

Le immagini di opere d’arte create da artisti del passato o contemporanei, stimolano a una

osservazione in grado di scomporre segno e colore, offrendo l'opportunità di un nuovo sguardo

dell’opera che ha in sé la morte quale fondamentale potenza creativa tutt'altro che scevra da un

assillante pensiero.

Quali sono le opere d’arte che prendi in considerazione?

Sin dall’antichità il compianto, il rito funebre e la sepoltura sono stati rappresentati da una

complessa gestualità e da una serie di credenze e superstizioni. Si trattava di riti di passaggio che

accompagnavano il corpo del defunto assicurando il distacco della sua anima e l’impossibilità di

ritornare nelle spoglie di un fantasma. La Chiesa tentò di attribuire a queste ritualità un fondamento

di fede, ma risultò molto difficile anche soltanto accostare il rito antico a valori cristiani. Benché

l’impresa fu irta di ostacoli il cordoglio collettivo, il funerale e la sepoltura, nel corso dei secoli

acquisirono un valore distinto di cerimonie di un “esodo” dell’anima dal corpo senza più vita alla

vita eterna, dannata o beata che fosse, e attribuirono ai vivi il ruolo di intermediario affinché i morti

giungessero più agevolmente in Paradiso. Era quello il momento del commiato in cui la ritualità

formulava la richiesta di riposo e luce eterna che contraddistinguono la pace della vita oltre la morte

terrena.

 La persistenza delle tradizioni antiche, l’avvicinamento di motivi cristiani e il dolore umano

espresso di fronte al corpo morto hanno caratterizzato il rito funebre, già codificato da liturgia e

legislazione, estremamente complesso anche da raffigurare. Nell’ambito della rappresentazione

passionale figurativa molti studiosi, con non poche difficoltà, si sono impegnati a ricostruire la

ritualità che ha permesso di osservare il modo etimologicamente originario di intendere la passione.

Partendo da questo specifico significato l’analisi delle opere d’arte, del passato o contemporanee

che contengano elementi di relazione con la morte del corpo o rappresentino la morte di un corpo

come tipi diversi di configurazione, ritengo possa essere fondamentale per la narrazione della morte

in contrapposizione alla paura di morire.

Quali casi ritieni possano essere il fondamento dello studio sulla rappresentazione della morte?

La morte di Cristo o il martirio di San Sebastiano sono i due casi che ne danno una versione

particolare, ossia la morte come atto del morire poiché è coinvolta una tematica passionale che è

l’atto puntuale del morire. È questo il motivo per cui è inevitabile il coinvolgimento di

un’aspettualità della sofferenza: incoatività dell’agonia, puntualità dell’atto di morte, duratività

dell’essere morti. Da qui e dalla struttura che ne deriva è possibile vedere come la natura aspettuale

del morire in alcuni periodi storici venga caricata di contenuti ideologici che per essere espressi

nell’arte dovranno presentare figure particolari che siano in grado di rappresentare tale aspettualità.

Tuttavia parlare della morte come figura rappresentata è parlare della fisionomia della morte come

accadimento fisico che coinvolge l’essere umano, ma anche dei suoi simboli e dei suoi emblemi.

Tra gli artisti contemporanei che hai inserito nella tua ricerca quale potresti segnalarci in questa

occasione di dialogo?

Sono felice che tu mi abbia fatto questa domanda Laura perché mi permette di citare un artista

italiano di fama internazionale che ammiro: Agostino Arrivabene. Ritengo che tra le opere ancora

nel suo studio, una sia l’emblema di questa estenuante pandemia. È un lavoro del 2016 intitolato

Martyrii Corona che fu esposto in una ricca personale alla Casa del Mantegna a Mantova proprio in

quell’anno. Ricordo con chiarezza che quando la vidi mi si palesò immediatamente non solo una

precisa immagine di morte, ma anche la sensazione di percepirne la temperatura e l’odore. Non il

corpo ma l’interpretazione perfettamente rifinita, nello stile di un’artista di pittura meditativa colta,

di uno dei simboli della passione di Cristo: la corona del martirio. In uno spazio in cui la luce

sembra persino riluttante ad assumere il ruolo che le compete, una corona di capillari sanguiferi

posa in bilico di fronte a chi osserva su una spessa lastra marmorea dipinta a tutta lunghezza.

Un’architettura dal personale grafismo a punta di pennello, una fitta rete di sottilissimi vasi che

sembrano agitarsi come le ciocche sconvolte della “capellatura” medusea. Adagiata con sublime

delicatezza Martyrii Corona travalica lo stato di incertezza e precarietà dell’uomo, citando una

canestra del passato che riferiva della transitorietà tra la vita e la morte. L’ariosa consistenza

plastica posta al centro della pietra dirama come da una spina, verso l’alto e verso il basso, mentre il

calore che l’abbandona esala e si eleva con sottili stalagmiti cuneiformi. Essa tenta la fusione tra i

due mondi in uno schema derivato in pittura dai fiamminghi, visto in Bellini, in Mantegna, che

contrappone al gelido piano la danza di sangue arborescente, non ancora coagulato, percorso dalla

luce. Vibranti di quel colore, che forse più di tutti riporta alla realtà della morte, gli elementi

organici appaiono fisicamente tangibili inondati dalla delicata luminosità che non assorbe il dramma

ma al contrario lo amplifica e lo mette a nudo fondendolo al freddo e all’angoscia stimolata dalla

rigida pietra. Inevitabile legare il sentimento umano di chi osserva all’evidenza del sapiente studio

del disegno dall’antico, della sua comprensione, dal fatto di saper vedere il vero ed essere in grado

di trasformarlo in un’opera universale mai così attuale e capace di parlare nel tempo. Un dipinto

geniale e di forte intensità perché Martyrii Corona è il pianto dei dolenti che in questo triste

momento della storia dell’uomo sono stati travolti dal dolore per la morte dell’altro. Anche il rigore

della rappresentazione ci pone di fronte ad un crescendo di linee parallele in una prospettiva

bloccata, tagliata ai lati per attribuirle un valore psicologico: ciò che è dettato dal rigore scientifico

presuppone una lettura attenta. La pietra dipinta a marezza fornisce indicazioni precise sulla sua

 consistenza e permette di comprendere le capacità dell’arte attraverso le qualità pittoriche di resa

che dimostrino come le opere che possiedono la forza di coinvolgere, debbano necessariamente

vedere unite nell’artista pittura e intelletto. Inevitabile che questa immagine non possa che rimanere

impressa in modo indelebile nella memoria per il rigore composto della tecnica, la precisione

prospettica, la capacità di rappresentare la realtà fatta di minuti particolari, l’invenzione

nell’accostare gli elementi. Una serie di passaggi bilanciati e graduali impongono allo sguardo di

procedere lungo la verticale dell’opera e scivolare sulla materia diversa. Il segmento temporale del

racconto, dal martirio alla gloria raggiunta con il sacrificio della vita, è preghiera di dolore. Ed è

così che l’esaltazione della sofferenza, di quel sangue versato, è passione che rivive nella perdita di

vigore materico in un progressivo levarsi al cielo. Una supplica ricreata sul ribaltamento della

consistenza, da solida a vapore che come fiamma trionfante ci esorta a non perdere la speranza.

In questa rappresentazione della morte vi è uno dei modelli di costruzione pittorica. Daniel Arasse

ha ben dimostrato che la prospettiva di Filippo Brunelleschi presenti un’esigenza di esattezza e di

coerenza della scena della pittura indipendentemente da ciò che vi si rappresenta, per cui attenzione

allo spazio. Leon Battista Alberti invece propone una prospettiva dove esattezza e coerenza sono in

funzione della narrazione, quella da lui definita “istoria”. Eppure, benché senza corpo, quest’opera

riveste un ruolo pedagogico-emozionale e stimola a provare passione poiché il meccanismo di

identificazione che si innesca tra il dipinto e colui che osserva, proprio in questo specifico tempo di

grande sofferenza del mondo, si attiva dalla dichiarata equivalenza di passione come movimento

dell’animo e il movimento creato dalla pittura. Mi pare evidente che questo modello possa essere

inserito nelle sfide alla natura della rappresentazione bidimensionale statica, dove lo spazio coerente

ed esatto è un principio ottico e geometrico. D’altro canto non potremo esimerci dal considerare in

questo luogo di dolore la possibilità di includere anche ciò che non è mai omogeneo alla natura del

piano dell’espressione della pittura, ossia la linearità della dimensione temporale del movimento,

cioè dell’azione.

Grava sull’uomo la drammatica esperienza di troppe improvvise sottrazioni e in questa tela il

messaggio è chiaro quand’anche raggiunga lo sguardo più vano. Forte è l’opera che seduce e nutre

il pensiero con immagini che raccontino del tempo che porta il morire di chi amiamo e di noi.

 

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Elena Alfonsi

Laureata in Storia della Critica d'Arte all'Università degli Studi di Padova scrive dal 1992 come Critica d'Arte.

Dal 2018 è Presidente dell'Associazione Culturale Aretè. Dal 1992 al 1997 a Milano è Consulente Scientifica per le acquisizioni della collezione privata appartenuta al Dott. Giorgio Cappricci.

Dal 1992 al 1999 è a Venezia come Consulente Scientifica di una Collezione Privata. Abita a Mantova ed è Critica d'Arte indipendente diplomata in Tanatologia Culturale al Master Death Studies e the End of Life - Dipartimento FISPPA - Università degli Studi di Padova con cui collabora dal 2018. Si occupa di arte, cultura e Death Education attraverso la pittura, la scultura, la fotografia, la letteratura, la poesia. E’ scrittrice, ideatrice di progetti didattico–culturali, di progetti di responsabilità etica a sostegno della cultura, di laboratori didattico formativi per un corretto approccio all’arte. Dal 2017 organizza a Mantova, nella prestigiosa sede della Casa del Mantegna una Rassegna di Cultura intitolata Alla fine dei conti. Riflessioni sulla vita e sulla morte. 

Dal 2018 promuove il Progetto “La morte nell'Arte. La cultura veicolo di sviluppo”. Dall’A.A. 2019/2020 è Docente Esterna di Storia dell'Arte e Storia della Critica d'Arte alla Accademia Internazionale dell'Intaglio a Bulino e Belle Arti di Bruno Cerboni Bajardi a Urbino. Dal 2019 collabora con l'Istituto Mantovano di Storia Contemporanea di Mantova.Dal 2022 come Socia AGC sarà l'organizzatrice di un'esposizione itinerante, la prima in Italia, dedicata al Gioiello Devozionale Contemporaneo in collaborazione con AGC Associazione Gioiello Contemporaneo, che inizierà da Padova nell'Oratorio di San Rocco per poi proseguire in altre sedi.

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Andrea Pastore 13/10/2021

Gli animali hanno un concetto di "morte" e sperimentano il lutto?
 Secondo la tanatologia, due criteri fondamentali per poter stabilire l'esistenza di un concetto di morte nelle varie specie animali sono ritenuti essere il riconoscimento verso un individuo morto della "perdita di funzionalità" e della "irreversibilità" della sua condizione. 

 Uno dei comportamenti più frequenti e utili per studiare il concetto di morte nelle varie specie è quello riscontrato in molte specie di primati dove le madri trasportano e curano il corpo senza vita dei loro infanti.

 Questo comportamento risulta ambivalente: i comportamenti di queste madri sono ascrivibili ad un "lutto materno" oppure al contrario mostrano come le stesse non abbiano ben compreso l'irreversibilità della perdita di funzionalità dei loro infanti e dunque la loro morte?

 In un recente studio alcuni ricercatori hanno esaminato una vasta mole di dati presenti in letteratura su circa 409 eventi di ICC (infant corpse carried by mothers) rappresentati trasversalmente in 50 specie di primati cercando di comprendere quali variabili influenzino questo comportamento e se lo steso possa essere effettivamente usato per stabilire la comprensione del concetto di morte in una data specie.

 I risultati hanno mostrato come nelle specie in cui si è osservato tale comportamento, la probabilità di trasportare il cadavere era più bassa se le cause della morte dell'infante erano di origine traumatica, come ad esempio nel caso dell'infanticidio, rispetto al caso in cui fossero di origine naturale (malattie). Anche l'età della madre influiva su questa probabilità, infatti le giovani madre mostravano una probabilità maggiore nell'eseguire questo comportamento rispetto a madri più anziane.

 Inoltre, al momento della morte tanto più era bassa l'età dell'infante tanto più si allungava la durata del trasporto del suo cadavere da parte della madre. Questo suggerisce come alla base di questa differenza ci sia la forte motivazione emotiva legata al legame madre-infante che risulta essere molto più forte nelle primissime fasi dell'ontogenesi degli infanti.

 Questi risultati presi insieme ci indicano come nelle varie specie di primati in cui si è riscontrato questo comportamento sia la presenza e il grado del legame emotivo madre-infante, sia le diverse cause di morte dell'infante ne condizionano la sua frequenza e la sua durata.

 Gli autori suggeriscono come in presenza di  molti più segnali indicanti la "perdita di funzionalità" e "l'irreversibilità" a seguito della morte dell'infante come nel caso delle morti di origine traumatica e con l'avanzare dell'età delle madri, queste riescano ad imparare più facilmente che l'infante sia morto e di conseguenza evitano di trasportarlo; viceversa la motivazione a continuare a prendersi cura del cadavere sarebbe più forte nel caso in cui le cause della morte siano "ambigue" e l'età dell'infante sia bassa, data la presenza di una forte motivazione materna ad accudire l'infante nelle primissime fasi della sua vita.

 Non si può comunque escludere che la probabilità di trasportare il cadavere dell'infante sia più bassa nel caso delle morti di origine traumatica a causa della presenza di un contesto socio-ambientale inibitorio in tal senso; le madri  potrebbero non trasportare e abbandonare il corpo dei loro infanti a causa dello stress e della paura condizionata dagli eventi che hanno ad esempio portato all'infanticidio dei loro piccoli.

 Insieme, questo gradiente legato al trasporto del cadavere degli infanti lascia ipotizzare come la presenza di un concetto minimo di morte possa essere presente nelle specie di primati in cui è stato osservato tale comportamento e come tale concetto affondi le radici all'interno di un'esperienza comparabile al lutto vissuta dalle madri in funzione del grado del legame emotivo madre-infante e delle cause della morte di quest'ultimo.

Gli umani sono stati a lungo considerati gli unici in grado di comprendere il concetto di morte ed eseguire alcuni riti funebri, come il lavaggio del corpo del defunto.

Questo atto è stato eseguito per millenni, in tutte le sue forme, sulla terra, sott'acqua, nell'aria, di notte o in pieno giorno.

Non si considera che un animale possa rattristarsi. Eppure, può comportarsi in modo molto simile a quello di un essere umano, specialmente tra le grandi scimmie, di fronte alla morte. Si può parlare di lutto o empatia, anche se queste caratteristiche sono considerate appannaggio dell’antropomorfismo.

Si può presumere che i compagni della vittima mostrino il dolore per una grande perdita in termini sociali, ma è impossibile valutare le emozioni causate da questa perdita. Le espressioni più sottili di emozione, le uniche in grado di rivelarci informazioni sull'impatto della perdita subita, sfuggono a tutte le osservazioni, neutralizzate da sentimenti più immediati come paura, rabbia, tristezza o persino gioia alcuni casi. Ma i congeneri della vittima raramente sono i testimoni immediati della morte, non trovandosi vicino al corpo.

L'espressione di empatia, lutto e dolore, così come altre manifestazioni generalmente associate alla perdita di un altro essere umano, sono di difficile accesso quando si è nel regno animale, poiché ci si può basare solo su comportamenti osservabili che rivelano informazioni parziali e limitate sulle emozioni vissute dall'animale.

Per essere in grado di condurre ricerche sulle reazioni degli animali alla morte, dobbiamo pensare ai casi in cui colpisce una determinata popolazione dal vivo, permettendo così un contatto immediato con il cadavere. Raramente conosciamo gli eventi che precedono la morte, nonché le relazioni sociali che uniscono la vittima ai sopravvissuti, che potrebbero fare luce sui sentimenti degli altri di fronte alla morte. Nei primati e nelle grandi scimmie possiamo distinguere diverse forme di morte: morte accidentale, morte di giovani o anche morte per malattia.

 

Che consapevolezza hanno gli animali della morte?

Se gli animali riescono a capire fino a un certo punto il passaggio dalla "vita" a quella "senza vita" di uno di loro, che dire della propria morte? Ne sono consapevoli?

I gorilla adottano diversi comportamenti simili a quelli osservati nell'uomo, inclusa una fase di lutto.

Per i ricercatori, la comprensione che gli animali hanno del passaggio dalla vita alla morte è spesso sottovalutata.

Si ritiene che molti fenomeni, come la capacità di ragionare, di usare strumenti o la consapevolezza della morte, differenzino l'uomo da altre specie. Ma la scienza ha dimostrato che questo confine è lungi dall'essere definito come si potrebbe pensare. Il modo in cui i gorilla rispondono all'agonia o alla morte di un compagno indica che la loro consapevolezza della morte è molto più sviluppata di quanto si possa immaginare.

 
 
 
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