9 articoli nella categoria Tanatodialoghi

Nicolas Tiburzi 14/12/2022 0

L’ importanza di idonei servizi funebri per dare alla “morte” la valenza sociale che merita

Recuperare una cultura del fine vita e re-inventare il rito funebre è fondamentale: la rilevanza di questa necessità non riguarda solo il campo psicologico dell’ individualità, ma la dimensione sociale della collettività. Il rito funebre permette di esorcizzare la morte, fare fronte all’angoscia che essa rappresenta, alleviare il senso di solitudine. Condividere il dolente momento ed elaborare la perdita consente numerosi vantaggi anche a livello psicologico. Da una dimensione individuale, a una dimensione condivisa: i servizi funebri devono restituire all’ “evento morte” la valenza socio – culturale che decisamente merita!   Senza dubbio, il culto della morte e dei morti è da sempre un elemento caratterizzante di ogni popolazione. Il rito funebre, variabile per culture, usi, tradizioni, epoche, è stato nel corso del tempo oggetto di diverse modifiche, ma nei fatti, si parla sempre di gesti e comportamenti socialmente condivisi e riconosciuti, finalizzati a dare dignità e in qualche modo “esorcizzare” il timore e la paura dell' evento morte, ma anche ad elaborare il doloroso momento della perdita. Ad oggi, la tematica è quasi un tabù, un tema scomodo che si cerca di evitare. Come se la morte non ci toccasse, un po' come rimandare il pensiero per non volercisi “soffermare”. Nei fatti, invece, essendo questo un dolente accadimento che ci dobbiamo trovare tutti, prima o poi, ad affrontare, merita di essere preso in considerazione con luce nuova.   La morte è a tutti gli effetti circondata da gesti simbolici e questo è un tratto distintivo dell’uomo. Fa parte della natura umana, infatti, rivolgere cure, attenzioni e sentimenti verso i defunti. Secondo noi di Tanmagazine, non è solamente quanto mai necessario recuperare una cultura del fine vita, ma esiste anche - e soprattutto - un grande bisogno di re-inventare il rito funebre, e i servizi ad esso collegati. E la rilevanza di questa necessità non riguarda solo il campo psicologico dell’ individualità, ma la dimensione sociale della collettività. Non ci sono dubbi, infatti, che il dolore provato e mostrato per la perdita di una persona cara segua una serie di rituali, amari e consolatori, nonché il bisogno di elaborare il lutto e la perdita. In questo senso, i servizi funebri non possono esimersi dall’ esserne all’ altezza: si tratta di accompagnare questo momento verso un passaggio naturale, da vita terrena a “memoria”, in modo quanto più dignitoso possibile.   Siamo pienamente consapevoli che ad, oggi, il rito funebre, nell' immaginario e nella cultura condivisa, non sia affatto “sentito”. Un tempo c’era più attenzione e cura per il defunto, ma, anche in questo campo, gli usi e i costumi cambiano, e adesso, molte tradizioni che prima erano rilevanti, non esistono più. E’ come se il tema della morte e le questioni ad essa connesse fossero state socialmente rimosse, destinate all’ombra di un inconscio collettivo, cercando di negare e rimuovere le   emozioni negative che la perdita porta con sé. Eppure, l’ importanza del rito funebre è fondamentale.   Oggi, la ritualità sociale legata alla morte rimane sì, ma in forma ridotta. Basti vedere cosa avviene dopo la scomparsa di una persona cara. Il più delle volte parenti e amici porgono l’ ultimo saluto al defunto abbastanza frettolosamente, o all’interno delle mura domestiche, oppure nelle strutture sanitarie, dentro i freddi obitori degli ospedali, luoghi profondamente inidonei a garantire la necessaria intimità e riservatezza. Altre volte, invece, ci si limita solamente ad un saluto presso la camera ardente. Tra l’ altro, in queste situazioni, la salma, provata dal trapasso, si presenta agli occhi delle famiglie, ovviamente, non in perfette condizioni, anche da un punto di vista puramente “sensoriale”. In ogni caso, gesti frettolosi e impersonali non sono certo adatti a rappresentare a pieno i desideri e le volontà di raccoglimento di famiglia, parenti e amici, che avrebbero bisogno di tempo per ricongiungersi col caro scomparso, per pregare o, ad ogni modo, per ricordarlo. Le cerimonie poi sono sempre più spesso laiche, oppure si opta per una breve benedizione, sbrigativamente, senza particolari emozioni. Il rischio di tutto questo? Sicuramente, la “spersonalizzazione”. Il lutto è privato, nella pratica, di gran parte della potenza emotiva e simbolica di un tempo. Oggi è un evento vissuto spesso sotto forma non pubblica, un dolore che la persona deve superare essenzialmente da sola, poiché la società tende, come già abbiamo detto, a negarne e rimuoverne le dimensioni.   Nei fatti, possiamo dire che manca una vera e propria cultura, per il tessuto sociale e per le famiglie, che possa far capire quanto il rito funebre sia invece importante.   Di fronte alla perdita di una persona cara, spesso si è confusi, insicuri, presi dall’onda delle emozioni, travolti da un senso di angoscia e di tristezza. Ecco che le ritualità legate alla morte hanno invece la funzione di agevolare il distacco di chi è “mancato”, consentendo di avere a disposizione una rete sociale di supporto. Psicologicamente e socialmente, il rito può presentare anche una lettura simbolica. Permettendo di “mettere in scena” il dolore, il rito funebre lo porta infatti da una dimensione individuale a una dimensione collettiva di condivisione. Numerosi studi e ricerche sono infatti concordi nell’ affermare che il lutto non elaborato e non trattato provoca angoscia e depressione negli individui e, di conseguenza, nella nostra società. Il rito funebre, in quest’ ottica, permette invece di esorcizzare la morte, fare fronte all’angoscia che essa rappresenta, alleviare il senso di solitudine. Ecco che il ruolo di servizi funebri adeguati, in questo contesto, è essenziale. Prima di tutto, si rende necessario dedicare attenzione e cura al defunto nelle operazioni di veglia. E qui diventa cruciale la nostra Tanatoprassi, che consente di offrire maggiore dignità alla morte, permettendo la conservazione della salma a lungo, in condizioni di igiene e sicurezza.   E poi, diventano fondamentali una serie di operazioni “sociali”: partecipare attivamente al rito e dedicare il tempo idoneo al caro defunto, vegliandone le passate spoglie e condividendo questo momento, in serenità e raccoglimento, con le altre persone. Tutto questo consente a “chi resta” di alleviare la sofferenza legata al lutto, elaborando il dolore, il senso di solitudine e di abbandono. Un sostegno, un aiuto, anche pratico, per affrontare la quotidianità e per riprendere la vita di sempre. Non solo. La partecipazione attiva al rituale consente di evitare anche possibili complicazioni future per chi ha subito la perdita, quali depressione e disturbi post traumatici da stress, su cui numerosi sono gli studi - nel settore della psicologia e delle neuroscienze - che ne attestano la profonda correlazione.   In conclusione, possiamo dire che di fronte alla tragedia o al dolore, il rito funebre può consentire alle persone in lutto di accettare emozioni così complesse. Spesso, i rituali significativi sono in grado di “placare”, “alleviare” sentimenti o sensazioni negativi o, anche, esprimere ciò che le parole non possono e contribuire, così, all’ elaborazione della perdita. In quest’ ottica, riteniamo fondamentale quindi che i servizi funebri si porgano al servizio dell’ individuo e della collettività, contribuendo a dare all’ evento morte, ossia a quel momento evolutivo dell’ indivuiduo che corrisponde al “fine vita”, la valenza socio – culturale che decisamente merita.
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Andrea Pastore 13/10/2021 0

Gli animali hanno un concetto di "morte" e sperimentano il lutto?

   Secondo la tanatologia, due criteri fondamentali per poter stabilire l'esistenza di un concetto di morte nelle varie specie animali sono ritenuti essere il riconoscimento verso un individuo morto della "perdita di funzionalità" e della "irreversibilità" della sua condizione.   Uno dei comportamenti più frequenti e utili per studiare il concetto di morte nelle varie specie è quello riscontrato in molte specie di primati dove le madri trasportano e curano il corpo senza vita dei loro infanti.  Questo comportamento risulta ambivalente: i comportamenti di queste madri sono ascrivibili ad un "lutto materno" oppure al contrario mostrano come le stesse non abbiano ben compreso l'irreversibilità della perdita di funzionalità dei loro infanti e dunque la loro morte?  In un recente studio alcuni ricercatori hanno esaminato una vasta mole di dati presenti in letteratura su circa 409 eventi di ICC (infant corpse carried by mothers) rappresentati trasversalmente in 50 specie di primati cercando di comprendere quali variabili influenzino questo comportamento e se lo steso possa essere effettivamente usato per stabilire la comprensione del concetto di morte in una data specie.  I risultati hanno mostrato come nelle specie in cui si è osservato tale comportamento, la probabilità di trasportare il cadavere era più bassa se le cause della morte dell'infante erano di origine traumatica, come ad esempio nel caso dell'infanticidio, rispetto al caso in cui fossero di origine naturale (malattie). Anche l'età della madre influiva su questa probabilità, infatti le giovani madre mostravano una probabilità maggiore nell'eseguire questo comportamento rispetto a madri più anziane.  Inoltre, al momento della morte tanto più era bassa l'età dell'infante tanto più si allungava la durata del trasporto del suo cadavere da parte della madre. Questo suggerisce come alla base di questa differenza ci sia la forte motivazione emotiva legata al legame madre-infante che risulta essere molto più forte nelle primissime fasi dell'ontogenesi degli infanti.  Questi risultati presi insieme ci indicano come nelle varie specie di primati in cui si è riscontrato questo comportamento sia la presenza e il grado del legame emotivo madre-infante, sia le diverse cause di morte dell'infante ne condizionano la sua frequenza e la sua durata.  Gli autori suggeriscono come in presenza di  molti più segnali indicanti la "perdita di funzionalità" e "l'irreversibilità" a seguito della morte dell'infante come nel caso delle morti di origine traumatica e con l'avanzare dell'età delle madri, queste riescano ad imparare più facilmente che l'infante sia morto e di conseguenza evitano di trasportarlo; viceversa la motivazione a continuare a prendersi cura del cadavere sarebbe più forte nel caso in cui le cause della morte siano "ambigue" e l'età dell'infante sia bassa, data la presenza di una forte motivazione materna ad accudire l'infante nelle primissime fasi della sua vita.  Non si può comunque escludere che la probabilità di trasportare il cadavere dell'infante sia più bassa nel caso delle morti di origine traumatica a causa della presenza di un contesto socio-ambientale inibitorio in tal senso; le madri  potrebbero non trasportare e abbandonare il corpo dei loro infanti a causa dello stress e della paura condizionata dagli eventi che hanno ad esempio portato all'infanticidio dei loro piccoli.  Insieme, questo gradiente legato al trasporto del cadavere degli infanti lascia ipotizzare come la presenza di un concetto minimo di morte possa essere presente nelle specie di primati in cui è stato osservato tale comportamento e come tale concetto affondi le radici all'interno di un'esperienza comparabile al lutto vissuta dalle madri in funzione del grado del legame emotivo madre-infante e delle cause della morte di quest'ultimo. Gli umani sono stati a lungo considerati gli unici in grado di comprendere il concetto di morte ed eseguire alcuni riti funebri, come il lavaggio del corpo del defunto. Questo atto è stato eseguito per millenni, in tutte le sue forme, sulla terra, sott'acqua, nell'aria, di notte o in pieno giorno. Non si considera che un animale possa rattristarsi. Eppure, può comportarsi in modo molto simile a quello di un essere umano, specialmente tra le grandi scimmie, di fronte alla morte. Si può parlare di lutto o empatia, anche se queste caratteristiche sono considerate appannaggio dell’antropomorfismo. Si può presumere che i compagni della vittima mostrino il dolore per una grande perdita in termini sociali, ma è impossibile valutare le emozioni causate da questa perdita. Le espressioni più sottili di emozione, le uniche in grado di rivelarci informazioni sull'impatto della perdita subita, sfuggono a tutte le osservazioni, neutralizzate da sentimenti più immediati come paura, rabbia, tristezza o persino gioia alcuni casi. Ma i congeneri della vittima raramente sono i testimoni immediati della morte, non trovandosi vicino al corpo. L'espressione di empatia, lutto e dolore, così come altre manifestazioni generalmente associate alla perdita di un altro essere umano, sono di difficile accesso quando si è nel regno animale, poiché ci si può basare solo su comportamenti osservabili che rivelano informazioni parziali e limitate sulle emozioni vissute dall'animale. Per essere in grado di condurre ricerche sulle reazioni degli animali alla morte, dobbiamo pensare ai casi in cui colpisce una determinata popolazione dal vivo, permettendo così un contatto immediato con il cadavere. Raramente conosciamo gli eventi che precedono la morte, nonché le relazioni sociali che uniscono la vittima ai sopravvissuti, che potrebbero fare luce sui sentimenti degli altri di fronte alla morte. Nei primati e nelle grandi scimmie possiamo distinguere diverse forme di morte: morte accidentale, morte di giovani o anche morte per malattia.   Che consapevolezza hanno gli animali della morte? Se gli animali riescono a capire fino a un certo punto il passaggio dalla "vita" a quella "senza vita" di uno di loro, che dire della propria morte? Ne sono consapevoli? I gorilla adottano diversi comportamenti simili a quelli osservati nell'uomo, inclusa una fase di lutto. Per i ricercatori, la comprensione che gli animali hanno del passaggio dalla vita alla morte è spesso sottovalutata. Si ritiene che molti fenomeni, come la capacità di ragionare, di usare strumenti o la consapevolezza della morte, differenzino l'uomo da altre specie. Ma la scienza ha dimostrato che questo confine è lungi dall'essere definito come si potrebbe pensare. Il modo in cui i gorilla rispondono all'agonia o alla morte di un compagno indica che la loro consapevolezza della morte è molto più sviluppata di quanto si possa immaginare.      
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Nicolas Tiburzi 19/08/2021 0

La Chiesa può negare un funerale?

Se il defunto è un criminale mai pentito, può ricevere la benedizione di un sacerdote ed essere seppellito in un Campo Santo? Chiedersi se la Chiesa può negare un funerale e quando può farlo obbliga a dare un’occhiata al Diritto canonico, ma anche all’essenza stessa della Chiesa cattolica. E pone anche qualche problema, per così dire, etico che viene spesso valutato di volta in volta a seconda del soggetto, delle circostanze e dal sacerdote. La morte di Totò Riina, come prima quella di Bernardo Provenzano e di altri criminali che non si sono mai pentiti delle atrocità che hanno commesso, ha portato di nuovo alla luce la posizione della Chiesa sull’opportunità o meno di fare un funerale (pubblico o privato che sia) ad un delinquente di tale portata.  Funerale di un criminale: cosa dice il Diritto canonico In base al Diritto canonico [1], la Chiesa cattolica può negare un funerale se prima della morte il soggetto non ha dato alcun segno di pentimento dei suoi errori e se: ·                                 è notoriamente apostata, eretico o scismatico (cioè se è andato di proposito contro gli insegnamenti della Chiesa e della fede cattolica, anche se in apparenza ha osservato alcuni riti come quello del matrimonio o del battesimo dei figli); ·                                 ha scelto la cremazione del proprio corpo per ragioni contrarie alla fede cristiana; ·                                 è stato un peccatore manifesto. Lo stesso articolo, però, invita a sentire il parere dell’ordinario del luogo (il parroco, il vescovo) e di sottomettersi al suo giudizio personale. Significa che ci potrebbe essere un sacerdote che, per suoi motivi di pensiero ed in coscienza, potrebbe decidere di negare o di accettare di celebrare il funerale di una certa persona o di benedire la sua salma. Il giudizio del sacerdote: quando sì e quando no Spesso la rabbia di fronte ai crimini commessi da una persona può portare a giudizi assolutamente comprensibili ma, di fronte alla sostanza della legge (in questo caso della legge ecclesiastica), non sempre corretti. Succede anche con le questioni che riguardano tematiche più profane: una sentenza che applica la legge alla lettera o l’interpretazione di un giudice può essere più o meno condivisa, ma quella è e quella bisogna accettare. Nell’argomento che ci occupa, un sacerdote o un singolo vescovo hanno il titolo di decidere quando la Chiesa può negare un funerale? Tecnicamente sì, perché hanno ricevuto un mandato per rappresentare la legge divina, così come un magistrato lo ha ricevuto per rappresentare la «legge umana» (per chiamarla così). Sta dunque al giudizio del prete o del prelato stabilire se il passato del defunto e le circostanze sociali permettono di poter celebrare un funerale pubblico o meno. Ma se la famiglia chiedesse il funerale privato, lontano da tutti per non creare scandalo pubblico, il sacerdote come si deve comportare? Qui si entra in un terreno molto delicato. Vangelo alla mano, la fede cristiana si basa sul perdono e sulla redenzione. La benedizione di una salma ed il rito funebre comportano, però, un perdono che viene concesso soltanto a chi lo chiede. Se uno non si pente di quello che ha fatto, di che cosa lo si deve perdonare? Se il defunto non lo ha fatto, nemmeno la famiglia può chiederlo al suo posto. Si può stare vicino ai parenti, li si può consolare se non hanno condiviso la vita del loro familiare. Tutto qui, però. Per la Chiesa, il sacramento della confessione è vincolato al pentimento. Di conseguenza, il sacerdote può rifiutarsi di benedire quella salma e, quindi, di celebrare un funerale anche alla presenza di pochi intimi. Naturalmente, tutto è soggettivo. In teoria, l’articolo del Diritto canonico che abbiamo citato riguarda tutti i «peccatori manifesti», cioè anche i divorziati («non osi separare l’uomo ciò che Dio unisce», si sentono dire gli sposi), i ladri, chi crea pubblico scandalo. Ma mettere tutti sullo stesso piano sarebbe ridicolo: non si può paragonare un criminale come Riina ad un divorziato onesto o a un ladro di polli. Per questo, alcuni rappresentanti della Chiesa, fortunatamente verrebbe da dire, valutano di volta in volta il soggetto che hanno davanti. Altrimenti (forse) di funerali non se ne farebbero più. Un criminale può essere seppellito in cimitero? Teoricamente, e per i motivi che abbiamo appena spiegato, una persona che ha vissuto fuori dalla fede cattolica e che, manifestamente, ha vissuto facendo del male al prossimo non può essere seppellito in un cimitero se non ha chiesto il perdono di Dio. Il motivo non è semplice (come abbiamo appena visto) ma è chiaro: il cimitero non è un «deposito di salme» ma è un campo santo e benedetto destinato ad ospitare chi ha ricevuto il perdono divino attraverso un ministro della Chiesa cattolica. Quindi, chi non si è mai pentito di quello che ha fatto in vita e, per questo, non ha avuto un funerale cattolico, non può riposare in cimitero. Qualche anno fa avevano fatto scalpore i funerali in pompa magna di Vittorio Casamonica a Roma. In quell’occasione Famiglia Cristiana aveva intervistato il teologo Silvano Sirboni che si espresse su quelle esequie degne di un principe del Rinascimento. “Il funerale non santifica la vita di nessuno – affermò Sirboni – mette le mani di ciascuno nelle mani della infinita misericordia di Dio”. A meno che non ci sia un rifiuto in vita da parte del soggetto in questione, tutti hanno diritto ai funerali in quanto battezzati “Magari sono stati infedeli al battesimo, ma la Chiesa prega anche per loro“, continuò.   “Nessun parroco può rifiutare di celebrare un funerale, – continuò il teologo – a meno che non ci siano prove che sia stato rifiutato dal defunto stesso”.   Qualche anno fa anche il cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli, aveva intimato ai suoi sacerdoti di non celebrare in chiesa i funerali dei boss della camorra.   Conclusioni La Chiesa non è un’istituzione sociale o umanitaria qualsiasi e che rivolge i propri servizi a chiunque, né tanto meno offre un servizio di onoranze funebri indifferenziato. La celebrazione delle esequie ecclesiastiche è stabilita dal diritto canonico con riti, simboli e canti ben precisi per cui nessun fedele ha il diritto di modificare il rito liturgico. La Chiesa agisce in foro esterno in quanto non può giudicare le intenzioni del cuore e la responsabilità morale di ciascuno, ma può attenersi ai soli atteggiamenti espressi o dichiarati pubblicamente in vita. La Chiesa, tuttavia, prega per tutti i peccatori, per la loro conversione e ne invoca la misericordia divina.     Fonti: Famiglia Cristiana laleggepertutti.it  
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Laura Liberale 11/04/2021 0

Un Percorso di Death Education

Laura Liberale intervista Elena Alfonsi Perché ti occupi di raccontare la morte attraverso l’analisi delle opere d’arte? Le opere d’Arte sono una straordinaria opportunità per fornire concretamente all’individuo la dimostrazione di come le dimensioni individuali, relazionali, sociali entrino inevitabilmente in gioco nei rapporti tra morte, cultura e storia; situazioni sociali e biografie individuali; condizioni di malattia e vita quotidiana; perdite ed elaborazioni nelle diverse età della vita; interiorità e codici comportamentali condivisi. Se riteniamo che la cultura del mondo debba essere tutelata, ossia difesa e salvaguardata, poiché fondante per la vita degli uomini, dovremmo ritenere, a maggior ragione, che anche la vita degli uomini debba poter essere tutelata quindi difesa e salvaguardata ma anche: assistita, curata, protetta. A questo proposito il percorso di DeAd che propongo, e che si intitola La Morte nell’Arte pone attenzione, con l’ausilio delle immagini di opere d’Arte, alla sofferenza, al dolore e alla perdita cercando di riconoscere nelle creazioni artistiche dell’uomo i profili dell’angoscia causata dall’incontro con la morte e osservare come gli artisti abbiano gestito il suo racconto. L’insieme delle opere d’Arte prese in considerazione daranno la possibilità di instaurare un confronto culturale ampio in grado di promuovere l’integrazione della morte nella vita. L’Arte permette di continuare a sensibilizzare la società sulla fondamentale importanza di divulgare il lavoro dei professionisti che si occupano della cura dell’angoscia per la morte. Questo con l’educazione, che è formazione, per portare a considerare le esperienze di perdita (intesa nelle sue varie accezioni) e di lutto, come parti essenziali del senso della vita. La paura di morire, di un corpo che si trasforma e della sua successiva decomposizione sono ossessioni da emarginare. Per questo è indispensabile colmare la distanza che separa il pensiero dei vivi dal loro giungere comunque inesorabilmente a un termine conducendo la società a raggiungere un conveniente livello intellettuale e morale per divenire: “amica della morte” - “alfabetizzata dalla morte”. Guidare alla presa di coscienza dell’ultimo avvenimento della vita umana, reintegrando il pensiero della morte nella vita collettiva, è un terreno educativo da presidiare in una prospettiva didattica costante, non emergenziale né riparatoria ossia che tenda ad allontanarne o peggio sradicarne il ricordo. Dobbiamo invece favorire il riavvicinamento dell’uomo al pensiero della morte. L’obiettivo è rendere cosciente la comunità della fondamentale importanza di un percorso di consapevolezza dell’esistenza di un fine vita nell’inscindibile rapporto con la vita. Attraverso la cultura potremo sempre riflettere sulla cessazione delle funzioni vitali nell’uomo per rendere gli individui più maturi e di supporto nei riti di passaggio per la pace dei vivi. Le immagini di opere d’arte create da artisti del passato o contemporanei, stimolano a una osservazione in grado di scomporre segno e colore, offrendo l'opportunità di un nuovo sguardo dell’opera che ha in sé la morte quale fondamentale potenza creativa tutt'altro che scevra da un assillante pensiero. Quali sono le opere d’arte che prendi in considerazione? Sin dall’antichità il compianto, il rito funebre e la sepoltura sono stati rappresentati da una complessa gestualità e da una serie di credenze e superstizioni. Si trattava di riti di passaggio che accompagnavano il corpo del defunto assicurando il distacco della sua anima e l’impossibilità di ritornare nelle spoglie di un fantasma. La Chiesa tentò di attribuire a queste ritualità un fondamento di fede, ma risultò molto difficile anche soltanto accostare il rito antico a valori cristiani. Benché l’impresa fu irta di ostacoli il cordoglio collettivo, il funerale e la sepoltura, nel corso dei secoli acquisirono un valore distinto di cerimonie di un “esodo” dell’anima dal corpo senza più vita alla vita eterna, dannata o beata che fosse, e attribuirono ai vivi il ruolo di intermediario affinché i morti giungessero più agevolmente in Paradiso. Era quello il momento del commiato in cui la ritualità formulava la richiesta di riposo e luce eterna che contraddistinguono la pace della vita oltre la morte terrena.  La persistenza delle tradizioni antiche, l’avvicinamento di motivi cristiani e il dolore umano espresso di fronte al corpo morto hanno caratterizzato il rito funebre, già codificato da liturgia e legislazione, estremamente complesso anche da raffigurare. Nell’ambito della rappresentazione passionale figurativa molti studiosi, con non poche difficoltà, si sono impegnati a ricostruire la ritualità che ha permesso di osservare il modo etimologicamente originario di intendere la passione. Partendo da questo specifico significato l’analisi delle opere d’arte, del passato o contemporanee che contengano elementi di relazione con la morte del corpo o rappresentino la morte di un corpo come tipi diversi di configurazione, ritengo possa essere fondamentale per la narrazione della morte in contrapposizione alla paura di morire. Quali casi ritieni possano essere il fondamento dello studio sulla rappresentazione della morte? La morte di Cristo o il martirio di San Sebastiano sono i due casi che ne danno una versione particolare, ossia la morte come atto del morire poiché è coinvolta una tematica passionale che è l’atto puntuale del morire. È questo il motivo per cui è inevitabile il coinvolgimento di un’aspettualità della sofferenza: incoatività dell’agonia, puntualità dell’atto di morte, duratività dell’essere morti. Da qui e dalla struttura che ne deriva è possibile vedere come la natura aspettuale del morire in alcuni periodi storici venga caricata di contenuti ideologici che per essere espressi nell’arte dovranno presentare figure particolari che siano in grado di rappresentare tale aspettualità. Tuttavia parlare della morte come figura rappresentata è parlare della fisionomia della morte come accadimento fisico che coinvolge l’essere umano, ma anche dei suoi simboli e dei suoi emblemi. Tra gli artisti contemporanei che hai inserito nella tua ricerca quale potresti segnalarci in questa occasione di dialogo? Sono felice che tu mi abbia fatto questa domanda Laura perché mi permette di citare un artista italiano di fama internazionale che ammiro: Agostino Arrivabene. Ritengo che tra le opere ancora nel suo studio, una sia l’emblema di questa estenuante pandemia. È un lavoro del 2016 intitolato Martyrii Corona che fu esposto in una ricca personale alla Casa del Mantegna a Mantova proprio in quell’anno. Ricordo con chiarezza che quando la vidi mi si palesò immediatamente non solo una precisa immagine di morte, ma anche la sensazione di percepirne la temperatura e l’odore. Non il corpo ma l’interpretazione perfettamente rifinita, nello stile di un’artista di pittura meditativa colta, di uno dei simboli della passione di Cristo: la corona del martirio. In uno spazio in cui la luce sembra persino riluttante ad assumere il ruolo che le compete, una corona di capillari sanguiferi posa in bilico di fronte a chi osserva su una spessa lastra marmorea dipinta a tutta lunghezza. Un’architettura dal personale grafismo a punta di pennello, una fitta rete di sottilissimi vasi che sembrano agitarsi come le ciocche sconvolte della “capellatura” medusea. Adagiata con sublime delicatezza Martyrii Corona travalica lo stato di incertezza e precarietà dell’uomo, citando una canestra del passato che riferiva della transitorietà tra la vita e la morte. L’ariosa consistenza plastica posta al centro della pietra dirama come da una spina, verso l’alto e verso il basso, mentre il calore che l’abbandona esala e si eleva con sottili stalagmiti cuneiformi. Essa tenta la fusione tra i due mondi in uno schema derivato in pittura dai fiamminghi, visto in Bellini, in Mantegna, che contrappone al gelido piano la danza di sangue arborescente, non ancora coagulato, percorso dalla luce. Vibranti di quel colore, che forse più di tutti riporta alla realtà della morte, gli elementi organici appaiono fisicamente tangibili inondati dalla delicata luminosità che non assorbe il dramma ma al contrario lo amplifica e lo mette a nudo fondendolo al freddo e all’angoscia stimolata dalla rigida pietra. Inevitabile legare il sentimento umano di chi osserva all’evidenza del sapiente studio del disegno dall’antico, della sua comprensione, dal fatto di saper vedere il vero ed essere in grado di trasformarlo in un’opera universale mai così attuale e capace di parlare nel tempo. Un dipinto geniale e di forte intensità perché Martyrii Corona è il pianto dei dolenti che in questo triste momento della storia dell’uomo sono stati travolti dal dolore per la morte dell’altro. Anche il rigore della rappresentazione ci pone di fronte ad un crescendo di linee parallele in una prospettiva bloccata, tagliata ai lati per attribuirle un valore psicologico: ciò che è dettato dal rigore scientifico presuppone una lettura attenta. La pietra dipinta a marezza fornisce indicazioni precise sulla sua  consistenza e permette di comprendere le capacità dell’arte attraverso le qualità pittoriche di resa che dimostrino come le opere che possiedono la forza di coinvolgere, debbano necessariamente vedere unite nell’artista pittura e intelletto. Inevitabile che questa immagine non possa che rimanere impressa in modo indelebile nella memoria per il rigore composto della tecnica, la precisione prospettica, la capacità di rappresentare la realtà fatta di minuti particolari, l’invenzione nell’accostare gli elementi. Una serie di passaggi bilanciati e graduali impongono allo sguardo di procedere lungo la verticale dell’opera e scivolare sulla materia diversa. Il segmento temporale del racconto, dal martirio alla gloria raggiunta con il sacrificio della vita, è preghiera di dolore. Ed è così che l’esaltazione della sofferenza, di quel sangue versato, è passione che rivive nella perdita di vigore materico in un progressivo levarsi al cielo. Una supplica ricreata sul ribaltamento della consistenza, da solida a vapore che come fiamma trionfante ci esorta a non perdere la speranza. In questa rappresentazione della morte vi è uno dei modelli di costruzione pittorica. Daniel Arasse ha ben dimostrato che la prospettiva di Filippo Brunelleschi presenti un’esigenza di esattezza e di coerenza della scena della pittura indipendentemente da ciò che vi si rappresenta, per cui attenzione allo spazio. Leon Battista Alberti invece propone una prospettiva dove esattezza e coerenza sono in funzione della narrazione, quella da lui definita “istoria”. Eppure, benché senza corpo, quest’opera riveste un ruolo pedagogico-emozionale e stimola a provare passione poiché il meccanismo di identificazione che si innesca tra il dipinto e colui che osserva, proprio in questo specifico tempo di grande sofferenza del mondo, si attiva dalla dichiarata equivalenza di passione come movimento dell’animo e il movimento creato dalla pittura. Mi pare evidente che questo modello possa essere inserito nelle sfide alla natura della rappresentazione bidimensionale statica, dove lo spazio coerente ed esatto è un principio ottico e geometrico. D’altro canto non potremo esimerci dal considerare in questo luogo di dolore la possibilità di includere anche ciò che non è mai omogeneo alla natura del piano dell’espressione della pittura, ossia la linearità della dimensione temporale del movimento, cioè dell’azione. Grava sull’uomo la drammatica esperienza di troppe improvvise sottrazioni e in questa tela il messaggio è chiaro quand’anche raggiunga lo sguardo più vano. Forte è l’opera che seduce e nutre il pensiero con immagini che raccontino del tempo che porta il morire di chi amiamo e di noi.   ^^^^^^^^^^   Elena Alfonsi Laureata in Storia della Critica d'Arte all'Università degli Studi di Padova scrive dal 1992 come Critica d'Arte. Dal 2018 è Presidente dell'Associazione Culturale Aretè. Dal 1992 al 1997 a Milano è Consulente Scientifica per le acquisizioni della collezione privata appartenuta al Dott. Giorgio Cappricci. Dal 1992 al 1999 è a Venezia come Consulente Scientifica di una Collezione Privata. Abita a Mantova ed è Critica d'Arte indipendente diplomata in Tanatologia Culturale al Master Death Studies e the End of Life - Dipartimento FISPPA - Università degli Studi di Padova con cui collabora dal 2018. Si occupa di arte, cultura e Death Education attraverso la pittura, la scultura, la fotografia, la letteratura, la poesia. E’ scrittrice, ideatrice di progetti didattico–culturali, di progetti di responsabilità etica a sostegno della cultura, di laboratori didattico formativi per un corretto approccio all’arte. Dal 2017 organizza a Mantova, nella prestigiosa sede della Casa del Mantegna una Rassegna di Cultura intitolata Alla fine dei conti. Riflessioni sulla vita e sulla morte.  Dal 2018 promuove il Progetto “La morte nell'Arte. La cultura veicolo di sviluppo”. Dall’A.A. 2019/2020 è Docente Esterna di Storia dell'Arte e Storia della Critica d'Arte alla Accademia Internazionale dell'Intaglio a Bulino e Belle Arti di Bruno Cerboni Bajardi a Urbino. Dal 2019 collabora con l'Istituto Mantovano di Storia Contemporanea di Mantova.Dal 2022 come Socia AGC sarà l'organizzatrice di un'esposizione itinerante, la prima in Italia, dedicata al Gioiello Devozionale Contemporaneo in collaborazione con AGC Associazione Gioiello Contemporaneo, che inizierà da Padova nell'Oratorio di San Rocco per poi proseguire in altre sedi.
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Laura Liberale 03/02/2021 0

Intervista alla tanatoesteta Beatrice Roncato

Ciao Beatrice! Parto col chiederti come ti sei avvicinata a questa professione?   Cara Laura, intanto grazie per questo spazio concesso. Mi sono avvicinata alla tanatoestetica da tre anni, dopo in realtà aver intrapreso percorsi che mi riportavano sempre a questo lavoro. La mia vocazione, a me piace chiamarla proprio così, nasce sin da quando ero piccola. Nella mia famiglia non c’è mai stato alcun timore nel coinvolgere me, come mio fratello, nelle questioni più delicate dell’esistenza, nemmeno per quanto riguarda la malattia e la morte stessa. Sono stata in qualche modo “fortunata”: ho una tradizione legata alla perdita avvenuta tra le mura domestiche, dove la morte ha visto coinvolgere i familiari nella piena dolcezza e pazienza che solo un decesso in abitazione può comportare. Mi spiego meglio: la scomparsa della nonna paterna è avvenuta improvvisamente, ma tra le sue cose più care: il suo salotto, caldo e accogliente, le sue sigarette che mai scordava, caso volle che ci fosse mio padre nella stanza a fianco quando lei se ne andò.  Ci venne data la possibilità visto anche il mese in cui scomparve, un gelido febbraio, di trattenerla in casa sua sino al giorno del funerale, e fu proprio lì che per la prima volta ebbi modo di prendermi cura dell’ultimo atto di mia nonna. All’epoca, 9 anni fa, ancora non ero a conoscenza di corsi formativi specifici per la tanatoestetica, ma sentii in qualche modo “mio” il diritto di prendermi cura di lei, in quei particolari che la rendevano unica. L’Impresa, dopo averla riposta nel feretro, non si curò in realtà di certi accenni che solo noi familiari conoscevamo bene: senza troppo pensarci presi dal suo cassetto i suoi trucchi, il suo rossetto ed il suo smalto rosso, il suo pettine, ed un foulard che era solita indossare nelle occasioni a lei speciali. Posso dire di ricordare quel momento come fosse ieri: il pettine mi permise di accarezzarla sistemandole i capelli come a lei piaceva. Le presi le mani, gliele strinsi tra le mie, come fossero di vetro, e le misi lo smalto.   Le posi il foulard in modo tale da celare quella fastidiosa mentoniera che non sopporto proprio, e le stesi una lacrima di rossetto, spruzzando poi il suo profumo, di cui conservo ancora oggi la boccetta. Ciò che provai allora è ciò che provo tuttora nel prendermi cura dei defunti e degli affetti di coloro che si affidano a me: gratitudine, reverenza, consapevolezza di quanto la vita sia un battito di ciglia.   Pensi che sia utile questo tipo di trattamento per i dolenti?   Ne sono fermamente convinta, soprattutto per una buona elaborazione del lutto. Penso sia un servizio capace di rispondere a due esigenze fondamentali, la dignità del defunto e la serenità di chi rimane, del dolente. Avere un contatto visivo con la salma di un proprio caro non è mai facile e spesso si evita di entrare in camera ardente prima della chiusura del feretro. Le persone hanno paura, hanno timore di non riscontrarvi l’immagine che si era soliti incontrare in vita. La tanatoestetica è una carezza che può aiutare ad affrontare la morte con maggiore consapevolezza, senza mascherare in realtà ciò che la morte stessa è: è indiscutibile che il corpo abbia cessato le proprie funzioni vitali, la tanatocosmesi rende tale impatto meno “traumatico” per il dolente, che può ritrovare –anche solo attraverso un particolare inconfondibile del proprio caro-quell’autenticità che è poi insita nella cura che la tanatoestetica propone. Non si tratta solo di porre del trucco, il dietro le quinte è ben più complesso: disinfezione ed igiene, vestizione decorosa e attuata in modo delicato, un maquillage leggero e che non dia l’impressione di trovarsi davanti a qualcuno di sconosciuto. Mi preme sottolineare che la tanatoestetica è solo un ramo della Tanatoprassi solo di seguito al quale, per dei risultati davvero ottimali, si può procedere con il trattamento di tanatocosmesi. Se la salma infatti non viene adeguatamente conservata dal punto di vista igienico, possono presentarsi spiacevoli risvolti nel corso della veglia pur avendo applicato la tanatoestica. Ritengo inappagabile il senso di serenità, riscontrato anche nelle parole dei dolenti, dopo aver avuto modo di dare l’ultimo saluto al proprio caro riconoscendovi l’unicità.  Come pensi si possa rivoluzionare il nostro modo di pensare ed affrontare la morte, in una società che sembra essersene dimenticata?   Il Master in Death Studies & the End of Life è stato fondamentale al fine di capire quanto il nostro rapporto con la morte e il morire sia giunto ad un punto per il quale non si debba più voltarsi dall’altra parte e fare finta di nulla. Viviamo nell’epoca del tutto e subito, della divinazione del corpo perfetto, sempre giovane ed eterno, come se la vecchiaia e il fine vita fossero una malattia, una sorta di condanna. Attraverso la morte dell’Altro, invece, possiamo imparare molto: affrontare la nostra finitudine, il rapporto con il nostro corpo che muta come mutano le nostre relazioni ed affetti - non eterni - e dunque meritevoli di una cura ed empatia che solo guardando in faccia anche i lati più dolorosi e negativi della nostra esistenza possono essere svelate.   Impareremmo a non dare nulla per scontato, a vivere il qui ed ora con consapevolezza riconoscenza verso chi abbiamo avuto la fortuna di incontrare nella nostra vita.    Ritengo parimenti basilare introdurre, sin dalla tenera età, percorsi di educazione alla morte che sappiano coinvolgere, con parole gentili ma sincere, anche i più piccoli. Solo in questo modo si potrà creare un terreno fertile da cui far germogliare l’idea che la morte, più che nemica, possa essere alleata nell’apprezzare in profondità la nostra esistenza terrena.    Biografia   Dopo la Laurea Specialistica in Sociologia, si è formata come Tanatoesteta e Cerimoniere funebre. Scrive articoli per la rubrica “Spazi di riflessione” per TgFuneral24. Ha frequentato il Master in Death Studies & the End of Life (Università degli Studi di Padova) per acquisire maggiori competenze nel campo della Tanatologia al fine di offrire un maggior supporto ai dolenti e, soprattutto, una maggiore consapevolezza della Morte e del morire.            
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